Alla Mostra del cinema di Venezia di undici anni fa un film è riuscito in qualcosa di incredibile. Nonostante fosse stato presentato durante l’ultima giornata del Concorso – notoriamente quella con i titoli considerati più deboli -, The Wrestler di Darren Aronfonsky con Micky Rourke nei panni del lottare professionista Randy “The Ram” ha sbaragliato la concorrenza, tanto da portarsi a casa il prestigioso Leone d’Oro. Com’è successo?

The Wrestler è rincorre il mantra di Lars Von Trier: “gli artisti devono soffrire, il risultato è migliore”. Nel momento in cui si crea un collegamento immediato e intimo tra l’autore, la storia racconta e lo spettatore, infatti, il risultato è sempre un film potente, intimamente sovversivo. Come diceva Kafka, “la sofferenza è l’elemento positivo di questo mondo, e l’unico legame fra il mondo e gli altri”. Aronfonsky ci crede, e lo traduce in una regia invisibile ma incisiva.

Mickey Rourke interpreta un personaggio in bilico tra la paura di soffrire e la cognizione della sofferenza nell’unica forma che conosce, quella della solitudine. Non si tratta né del primo né dell’ultimo film sulla solitudine, ma Aronfonsky prende una direzione tutta sua, partendo anzitutto dal significato del termine “cognizione”, letteralmente “l’atto del conoscere”. Randy non elabora il dolore, ma lo conosce nella forma dell’abbandono: quella fase di autoanalisi che in altre opere, come in Manchester by the Sea (Kenneth Lonergan, USA, 2016) , conduceva il personaggio a una pace finale, seppur precaria, in The Wrestler non arriva mai.

The Wrestler trova nella storia che racconta la forza di rappresentare un sentimento contraddittorio: il desiderio di sparire nel nulla e l’esigenza di essere ricordato in eterno.

Con il volto eroso da una vita violenta, sia fisicamente che emotivamente, Mickey Rourke è al centro di un dramma nel suo senso più classico, ovvero di una situazione che porta alla perdita di qualcosa. The Wrestler non racconta infatti le cause della solitudine, ma riflette sulle conseguenze, lontano da ogni trappola retorica. La storia di Randy giunge a un epilogo straziante: anche quello che amiamo o abbiamo amato può non essere più abbastanza, come dicono le parole della colonna sonora di Bruce Springsteen: “This place that is my home I cannot stay”. 

Davide Spinelli