Pornhub non ha bisogno di presentazioni. Acquisito nel 2010 da Mindgeek, azienda che prima di allora non aveva niente a che fare col mondo del porno e che nel giro di pochi anni è diventata un colosso nel settore inglobando anche XHamster, Redtube, Gay Tube, Brazzers (per citare solo le piattaforme più famose), grazie alla direzione di Fabien Thylmann ha scalato i risultati dei motori di ricerca fino a conquistare il primo posto, raccogliendo dati sui propri utenti in modo estremamente preciso ed efficiente. Money shot: La storia di Pornhub, documentario disponibile su Netflix, ripercorre la storia di PornHub e della sua ascesa vertiginiosa, passando altrettanto repentinamente da un tono spensierato, a un taglio dalle tinte fosche e ad argomenti complessi e scivolosi.

Se nell’era pre-Internet l’intrattenimento per adulti manteneva un basso profilo per non attirare l’attenzione della polizia, Pornhub ha fatto l’esatto opposto: ha puntato dritto a diventare un brand pop e riconoscibile per il grande pubblico. E ci è riuscito grazie a una politica di marketing massiccia, basata su pubblicità mastodontiche a Times Square, collaborazioni con artisti del calibro di Kanye West e campagne per la sensibilizzazione degli utenti su tematiche calde di attualità (come la recente Sexstainability, che puntava a dare consigli per una vita più sostenibile al motto “Come together for mother earth!”). La piattaforma sembrava anche avere adottato un trattamento più etico e attento nei confronti di attori e attrici: come racconta Gwen Adora, una delle sex worker di punta di PornHub, l’apertura nel 2018 di Modelhub ha svincolato i porn performer dalle case di produzione, permettendo loro di controllare e gestire direttamente ogni parte del proprio lavoro, dallo script delle scene da girare, dal videomaking alla comunicazione finale con l’utente, e di acquisire indipendenza anche da un punto di vista economico. 

Ed è qui che iniziano a incombere gigantesche ombre sul colosso del porno. Nel 2020 il sito è stato travolto da un’inchiesta avviata da NCOSE (National Center Of Sexual Exploitation) e dal giornalista del New York Times Nicholas Kristof, denunciando la piattaforma per la diffusione di immagini pedopornografiche e di stupro, sulle quali sembrerebbe basarsi gran parte del proprio introito. In merito alla vicenda, prende la parola nel documentario un ex moderatore di Pornhub, spiegando che le condizioni lavorative non permettevano di poter visionare attentamente l’ingente quantità di video presenti sulla piattaforma. Ogni moderatore, infatti, in 8 ore di lavoro, doveva visionare un minimo di 700 video, spesso senza audio e velocizzati per ottimizzare i tempi, e le richieste di rimozione dei filmati spesso rimanevano in arretrato di 6 mesi. Oltretutto, anche se il video veniva cancellato, la ricerca tramite parole chiave permetteva di poter cercare contenuti simili all’interno della piattaforma, permettendo a PornHub di non perdere terreno in termini di SEO. Dunque l’azienda avrebbe potuto fare di più nella gestione dei contenuti caricati – come sostiene il testimone -, ma si è mossa solamente quando è stata messa all’angolo dalla stampa. 

D’altra parte, diversi interventi del documentario sottolineano che, dietro alla facciata liberal delle campagne denigratorie ai danni di Pornhub, ci fossero potenti organizzazioni cristiane e di estrema destra decise a eliminare del tutto il mondo del porno, piuttosto che regolarizzarlo, portando anche molte aziende partner a prendere le distanze da Pornhub, tra cui Paypal e Mastercard, rendendo difficili le transizioni sul sito e dunque il funzionamento dell’intera piattaforma. Le conseguenze le ha pagate chi svolgeva sex work sulla piattaforma, che ha deciso di migrare su altri portali come OnlyFans, esploso proprio durante la pandemia. L’ondata di ostracismo sembra essere nata da una serie di leggi varate nel 2018 e rinominate “Fosta-Sesta” (il Fight Online Sex Trafficking Act e il Stop Enabling Sex Traffickers Act), secondo le quali le piattaforme online, e tutti i loro dipendenti, sono ritenuti responsabili dei contenuti caricati sulle stesse. Questo ha cambiato nuovamente le carte in tavola: la censura è aumentata su tutti i siti, portanto i sex worker ad affidarsi nuovamente alle grandi case di produzione e a PornHub. E non è finita lì: nel 2021 MasterCard ha esercitato un’ingente pressione anche su OnlyFans, costringendo la compagnia a vietare “qualsiasi tipo di condotta sessualmente esplicita” sulla piattaforma, salvo poi tornare sui propri passi pochi giorni dopo per via della chiusura in massa dei profili dei creator e della fuga di migliaia di utenti. Money Shot: la storia di Pornhub restituisce le luci, le ombre e tutte le sfumature di un settore, quello del porno, ancora ostacolato da pregiudizi morali che, impedendone una regolarizzazione, lo rendono instabile, e dunque insicuro prima di tutto per chi lavora come sex worker.

Anna Bonandrini