Voto

8

Dopo aver perso la vita in un incidente stradale, C (Casey Affleck) continua a osservare la sua compagna M (Rooney Mara) andare avanti con la propria vita e affrontare l’elaborazione del dolore. Le sue sembianze sono quelle di uno spettro dal lenzuolo bianco con due buchi per gli occhi, che M non può né vedere né sentire – forse a malapena percepire. E anche quando lei deciderà di lasciarsi quella vita e quel dolore alle spalle, C rimarrà custode invisibile e (non sempre) inattivo della casa in cui vivevano insieme. Storia di un fantasma (A Ghost Story) di David Lowery, disponibile su Netflix, è letteralmente la storia di un fantasma. Ma sotto al telo bianco c’è ancora un’esistenza, come sotto a un soggetto all’apparenza semplice si nascondono spunti riflessivi profondi, stratificati e intensi.

Con un formato 4:3, lunghe inquadrature e la quasi assenza di movimenti di macchina e di dialoghi, Lowery crea immagini che sprigionano un’intimità emotiva malinconica e straziante nella sua tragicità silente. Lo spettatore non solo è testimone della storia, ma entra in totale empatia con uno spettro devastato dal dolore, dalla perdita e dalla solitudine, rimasto in balia dello scorrere del tempo di un mondo, quello dei vivi, di cui non fa più parte, ma al quale si aggrappa con una forza disperata, incapace di lasciarlo andare. La sua tenacia si trasforma in frustrazione rabbiosa, fino a raggiungere un cortocircuito che interrompe la linearità temporale e sprofonda in una sorta di loop anti narrativo, che rimbalza tra epoche diverse senza alcuna consequenzialità logica né narrativa. Quello che spesso chiamiamo intuito, o istinto, che ci porta a prendere determinate scelte nella vita, si rivela allora l’esito di un’accidentale sovrapposizione tra l’io terreno e l’io ultraterreno, tra l’io di questa dimensione e l’io di una dimensione “altra”.

Storia di un fantasma è la dimostrazione che per girare un film raffinato e d’impatto non servono grossi budget: ciò che conta è l’idea e la capacità di trasformarla in una sceneggiatura e in una messa in scena che sappiano arrivare al cuore e/o alla mente degli spettatori. Un’efficacia visiva e di scrittura che è subito chiara fin dalla scena madre del film: la metamorfosi del protagonista nell’obitorio, che improvvisamente trasforma un telo bianco qualunque in un fantasma carico di emozione e dolore. Lowery ha realizzato un’intima declinazione dell’horror vacui che spinge a chiedersi quale sia il senso dell’esistenza, se valga davvero vivere, che cosa rimarrà di noi quando moriremo. Un film dolce, malinconico, straziante ed estremamente umano.

Francesca Riccio