Il 24 settembre 1945 viene proiettato per la prima volta nelle sale italiane Roma città aperta, il controverso film scritto da Sergio Amidei, Alberto Consiglio, Federico Fellini e Ferruccio Disnan e diretto da Roberto Rossellini. La pellicola documenta i nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma e viene realizzata quando in Italia imperversa ancora la guerra (le riprese iniziarono nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1945), con le relative difficoltà economiche e organizzative.

Nato a breve distanza dai fatti che si proponeva di rappresentare, Roma città aperta si trovò a fare i conti con pressioni sociali, politiche e ideologiche che influirono notevolmente sulle scelte degli autori e sulla versione finale del film, modificando in corso d’opera l’idea originale di Rossellini e Amidei. Molti studiosi, tra cui Stefano Roncoroni ne La storia di Roma città aperta, si interessarono alla pellicola dal punto di vista storico e filologico, cercando di individuare i cambiamenti intercorsi durante la realizzazione del film.

Durante le sue ricerche, nel 1970, Roncoroni incontra il produttore del film Aldo Venturini, dalla testimonianza del quale riesce a risalire a uno stadio della sceneggiatura non meglio specificato ma con certezza precedente l’intervento censorio del Ministero. Roncoroni si dovette però servire di un pittoresco escamotage: dal momento che Venturini non concesse a Roncoroni né di prendere appunti relativi alla sceneggiatura, né di portarla via, si accordarono affinché Roncoroni la leggesse ad alta voce di fronte al produttore, così il primo, approfittando della veneranda età del secondo, registrò le letture, complete di punteggiatura e di ogni altro segno presente sulle pagine.

Confrontando questa sceneggiatura con quella desunta dalla versione finale del film, quindi affiancando sinotticamente il momento della scrittura a quello della regia, Roncoroni porta alla luce alcune significative differenze, soprattutto nelle sequenze più spinose dal punto di vista storico-politico: la liberazione degli ostaggi, che viene ambientata fuori città e dunque slegata dal coinvolgimento popolare e cittadino; e la fucilazione finale di don Pietro, deformata rispetto alla realtà storica attraverso la modifica delle divise del plotone d’esecuzione che uccise il prete, personaggio ispirato alla figura storica di don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta il 3 aprile 1944 (modificando l’idea iniziale di rifarsi a don Pietro Pappagallo, un sacerdote che aveva dato asilo a disertori e antifascisti munendoli di documenti falsi).

Secondo quanto riportato da Roncoroni, sia Venturini che tutti gli altri autori del film con cui aveva parlato – tra cui Rossellini, Amidei, Fabrizi e Consiglio – negavano il verificarsi di un intervento censorio da parte del governo, oppure “cadevano dalle nuvole” quando Roncoroni stesso si riferiva all’episodio in modo diretto. All’epoca, infatti, la vicenda di don Morosini era ignorata da quasi tutti gli italiani, ed era stata riportata esclusivamente da alcuni quotidiani (dalle nostre ricerche è emerso solo un articolo de “Il Popolo”) e da radio clandestine (“Radio Londra” e “Algeri”). Fu solo con Roma città aperta che si iniziò a parlare pubblicamente dell’episodio. Grazie a Roncoroni emerse il fulcro della problematica relativa al film: la sceneggiatura originale assegnava al plotone d’esecuzione le divise della P.A.I., e fu proprio questo dettaglio ad allarmare il governo e spingerlo a intervenire. L’interesse dell’allora Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi era infatti quello di ristabilire la veridicità storica dei fatti, secondo il governo non rispettata dalla prima stesura del film, ma al contempo anche quello di proteggere la delicata pacificazione nazionale, messa a rischio proprio da Roma città aperta, in quanto avrebbe potuto scatenare rivolgimenti contro la P.A.I.

Se, però, la fucilazione di don Morosini era stata quasi completamente ignorata dagli italiani, come ha potuto Amidei esserne a conoscenza? Di quali fonti si è servito? Confrontando la ricostruzione dei fatti proposta dalla versione finale del film con la biografia di don Morosini di Giorgio Vecchio (Dizionario Biografico degli italiani), fonte che si ritiene essere la più autorevole e la cui versione viene assunta come quella “veritiera”, emerge una discrepanza non indifferente: secondo Vecchio erano state le forze armate italiane le uniche responsabili della morte di don Morosini, come nella sceneggiatura originale, mentre nella versione finale di Roma città aperta viene fatta ricadere tutta la colpa sull’ufficiale nazista che presiedeva la fucilazione. Oltre a quella di Vecchio e a ricostruzioni di epoche successive, risulta difficile reperire testimonianze e materiale risalente ai giorni e ai mesi a ridosso della vicenda, sia per la distanza storica che ha portato al deperimento dei materiali, sia per il clima di tensione e di limitata libertà d’espressione di quegli anni, sia per la più lenta e ridotta circolazione delle informazioni rispetto a oggi.

Alla luce del materiale giornalistico, letterario e visivo reperito (sia contemporaneo all’episodio che successivo), perché determinati quotidiani, riviste e libri descrivono la vicenda in un certo modo? Amidei o Rossellini entrarono in contatto con alcune di queste ricostruzioni? E, al contrario, come Roma città aperta veniva percepito allora e come viene percepito adesso dal pubblico? Dal momento che i film del periodo neorealista si ponevano come ricostruzioni affidabili, perché Rossellini ha acconsentito a tradire il principio della verosimiglianza? Quali forze e interessi erano in gioco? In virtù del suo statuto documentario, è possibile che il film abbia influenzato rappresentazioni future dell’episodio della fucilazione?

Tra il 20 febbraio 1945 e il 16 marzo 1945 si verificò un teso braccio di ferro tra il Ministero dell’Africa Italiana, il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, tutte istituzioni rette da Ivanoe Bonomi durante il suo secondo governo (12 dicembre 1944 – 19 giugno 1945). “Il primo caso di censura a priori della storia del nostro cinema e forse ancora uno dei più gravi, dati i livelli istituzionali a cui s’è operato, la brutalità dell’intervento e il silenzio sotto cui è stato sepolto.”, scrive Roncoroni. Nella prima lettera il Ministero segnalò un presunto errore storico nella ricostruzione del plotone d’esecuzione di Morosini: se nel film i soldati erano identificati come appartenenti alla P.A.I., il governo affermò che si trattava di “altro Corpo di Polizia come ripetutamente reso noto dalla stampa quotidiana” e invitò la produzione ad apportare tale modifica per “impedire che sia documentato un episodio non rispondente a verità”.

In una lettera successiva, però, la motivazione del governo slittò verso tinte socio-politiche, spinto dalle forti tensioni in corso in quegli anni, e sembrò abbandonare la preoccupazione per il principio di veridicità: “Evitare che la rappresentazione di tale episodio possa arrecare disdoro o fomentare motivi di disappunto e rancore verso la Polizia in generale” e Bonomi invitò la produzione a eliminare la scena. Il film di Rossellini risultava dunque pericoloso agli occhi del governo, interessato a raggiungere e mantenere una pacificazione nazionale e a salvaguardare l’onore e la pietas cristiana delle forze armate italiane. Anzi, una volta depurato da ogni “malinteso”, Roma città aperta poteva diventare uno strumento efficace del governo per riabilitare un’Italia moralmente e materialmente distrutta dalla dittatura e dalla seconda guerra mondiale.

Ma a quali testate giornalistiche si riferiva il ministro Bonomi nella lettera sopracitata? E come mai l’allora Presidente del Consiglio non ha colto l’occasione per correggere l’errore e indicare quale fosse il “giusto” corpo di polizia? Data l’incongruenza tra la lettera del ministro Bonomi e le versioni d’epoca reperite nel corso delle nostre ricerche, salvo due comunicati radio (“Radio Londra” del 24 aprile 1944 e “Algeri” del 28 aprile 1944), uniche fonti plausibili della posizione del governo, si può ipotizzare che nella lettera si facesse riferimento ad articoli e fonti allora consultabili ma non più reperibili a causa di uno scarto a livello di informazioni tra oggi e gli anni ‘40.

L’Ufficio dello Spettacolo del Sottosegretario di Stato per la Stampa-Spettacolo e Turismo rispose cercando un compromesso: lasciare indeterminato il plotone d’esecuzione, non potendo, per ragioni spettacolari, sopprimere la scena. Ma chi e come convinse il Sottosegretario di Stato per la Stampa-Spettacolo e Turismo che la scena non poteva essere eliminata? In ogni caso, il Ministero non gradì la decisione del Sottosegretario Francesco Libonati e rispose sulla falsa riga della precedente lettera, insistendo affinché la scena venisse eliminata, al fine di mantenere intatti il ruolo e l’autorità delle forze di polizia, messi fortemente a rischio dalla politica di discredito operata dal Partito Comunista, che in quel periodo ne denunciava la collaborazione con il passato regime fascista e ora con l’occupante nazista, e da una pellicola “antigovernativa” quale poteva apparire Roma città aperta in un periodo di tensioni così forti.

La soluzione di compromesso portò all’unica versione oggi visionabile: un plotone d’esecuzione italiano ma non ulteriormente determinato che, per ovviare alle preoccupazioni del governo relative a possibili rivolgimenti sociali contro le forze di polizia in generale, spara senza colpire a morte don Morosini; e sarà l’ufficiale tedesco a finirlo con il colpo di grazia. Questa versione risultò così funzionale alle esigenze del governo, interessato a sollevare da ogni responsabilità le forze armate italiane e a trasferire tutta la colpa sul milite naziste, anche a discapito della veridicità storica addotta nella prima lettera. E se è successo con Roma città aperta, nulla vieta di pensare che la stessa sorte possa essere toccata anche ad altre pellicole di quel periodo tanto florido quanto ombroso per la “settima arte”.

Benedetta Pini