La cosiddetta fuga di cervelli non riguarda solo il settore delle scienze dure, ma anche e soprattutto le discipline umanistiche e artistiche, che in Italia trovano spesso un ambiente ostile, se non una totale assenza di spazi in cui svilupparsi e di possibilità di formazione, crescita e affermazione.
Così vediamo uscire dai confini nazionali molte di quelle menti creative sagaci e intraprendenti di cui il panorama culturale italiano ha sempre più bisogno per continuare ad alimentarsi e a svilupparsi, invece di fare di anno in anno enormi passi indietro e rimanere impantanato in visioni, sistemi e strutture retrograde. Una di queste menti è quella di Eleonora Privitera, giovane regista di documentari romana che qualche anno fa ha deciso di mollare la città eterna per trasferirsi nella grande mela.
La formazione in Antropologica le consente una visione puntuale e approfondita sulle dinamiche sociali, politiche e culturali del nostro presente, che si è portata dietro anche quando ha deciso di entrare nel mondo dell’audiovisivo, specializzandosi in Documentary Filmmaking alla New York Film Academy. Ora lavora a New York come videomaker di documentari freelance e indipendente, DOP e insegnante par-time di Cinematografia e Montaggio alla NYFA. In parallelo, collabora nell’ambito del documentary storytelling insieme a Synaptica, un collettivo internazionale di professionisti che operano tramite soluzioni socio-ambientali innovative.
L’ultima creazione di questo suo percorso è Rebirth, cortometraggio selezionato al DOC NYC e al New York Lift Off Film Festival e vincitore del premio d’argento al San Diego Italian Film Festival. Un film intimo e coraggioso, che proprio come un diario di bordo racconta passo passo la malattia e la convalescenza di suo padre Vincenzo, ammalatosi di tumore lo scorso anno, sempre affiancato da Grazia, sua moglie. Il momento complicato vissuto dai genitori di Eleonora diventa anche uno spunto per ripercorrere la storia di questa coppia tramite immagini di repertorio, indagando l’evolversi negli anni della loro unione simbiotica e profondamente complice. Una storia di condivisioni, compromessi e amore restituita nella cornice di un quadro caldo e assolato bagnato dal mare, che con la sua simbologia salvifica accompagna questo percorso di rinascita.
Ma lasciamo che sia direttamente Eleonora a parlarcene.
Ciao Eleonora! Parlaci un po’ di te: come descriveresti il tuo background personale e artistico?
Sono di Roma, ma tutta la mia famiglia è siciliana e per questo mi sento molto legata al sud Italia a livello culturale. La mia spinta a studiare antropologia nasce proprio dal mio forte interesse verso le radici, le usanze e i diritti umani. Disillusa dal mondo accademico, secondo me troppo autoreferenziale e teorico, ho deciso di seguire un corso sul fotoreportage e il video documentario alle Officine Fotografiche di Roma, e lì, grazie al direttore del corso Emiliano Mancuso, ho realizzato il mio primo corto-documentario. Quell’esperienza è stata per me una rivelazione: ho capito che il video è il mio canale espressivo primario.
Bergman ha detto che “il film non è un documentario, è un sogno”. Pensi che la formazione antropologica, basata sulla ricerca sul campo, abbia determinato questa tua esigenza di documentare la realtà invece di elaborarla attraverso film di finzione?
Assolutamente sì. I miei studi mi hanno indotta ad assimilare e integrare quella serie di pratiche proprie dello studio antropologico, come le interviste, lo sviluppo di relazioni sociali attive per creare fiducia, e così via. Credo che il vero motore che spinge le mie azioni sia il desiderio di esercitare un impatto sul mondo e di apportare un cambiamento nella società, impegnandomi a livello civile in sostegno dei diritti ambientali e umani. Questo penso sia il mio focus principale. In via definitiva, il documentario è una risposta ai miei bisogni individuali e a quelli che percepisco come sociali, bilanciando tra ricerca e arte.
Quando hai deciso di trasferirti negli Stati Uniti?
Sono sempre stata molto critica nei confronti di questo Paese, nonostante alla fine io abbia deciso di viverci. Ho deciso di trasferirmi quando il mio insegnate, verso il quale nutrivo molta stima e fiducia, mi consigliò di procedere con la formazione in storytelling a New York, perché era il contesto migliore che potessi trovare. Questo mi ha spinta ad andare oltre le criticità politiche del paese, viverle mi ha anche permesso di capirle a fondo.
Rimanendo sul tema delle criticità politiche: qual è la tua opinione sulla discriminazione di genere in questo campo?
Il mio primo approccio al mondo del cinema negli Stati Uniti è avvenuto all’interno dell’accademia, e sono rimasta subito sorpresa dalla gestione del dipartimento, perché era un ambiente molto ricco di donne. Per la prima volta mi sono ritrovata in un ambiente lavorativo prevalentemente femminile, il che mi ha stimolata molto. Ma vivo a New York ancora da ancora troppi pochi anni per poter assumere una posizione forte a riguardo, finora posso solo dire che la mia esperienza è molto positiva, lontana dalle discriminazioni che mi ero immaginata.

Passiamo ora a parlare del tuo ultimo corto, Rebirth. Innanzitutto: come state tu e la tua famiglia?
Stiamo bene. Mio padre è ancora un po’ acciaccato, la sua vita è totalmente cambiata. Il cancro non c’è più, ma lascia delle conseguenze: un ripensamento continuo della quotidianità e delle relazioni, anche all’interno della famiglia stessa.
Partiamo dal titolo: Rebirth. Di chi è la rinascita?
È di tutti noi, intesi come esseri umani. L’aspetto più bello di questo lavoro è che l’ho proprio realizzato insieme ai miei genitori.
Quanto tempo sono durate le riprese?
Il tempo della mia permanenza in Italia: la prima volta a luglio 2020, quando mio padre era in ospedale e ho girato le prime immagini del corto, e poi a settembre, quando mio padre era a casa.
Questo “diario di bordo” della malattia di tuo padre lascia una traccia importante nella tua vita. Cosa ti ha spinto a scrivere un lavoro così intimo?
Inizialmente ero molto dubbiosa, mi chiedevo a chi mai sarebbe potuta interessare la storia dei miei genitori. Poi, invece, ho capito che questa è la storia di tante persone. Ho iniziato a lavoraci in modo molto naturale, in quel periodo mi trovavo a casa e non riuscivo ad immaginarmi in un posto diverso da quello, dovevo esserci per la mia famiglia. Ho fuso in questo modo il mio essere regista con il mio ruolo di figlia.
Immagino sia stato anche un modo per rielaborare il dolore…
Esatto. Ma ci sono arrivata dopo. Tutto è successo in modo naturale, semplicemente nel momento giusto. Il mio mestiere è il mio modo di essere e di stare al mondo. Ho cercato di rielaborare attraverso l’arte quello che ci stava accadendo.

I tuoi genitori come hanno vissuto il rapporto con la macchina da presa in un momento così particolare?
Sono stata molto esitante all’inizio… temevo che mio padre, da vero uomo siciliano, avesse qualche remora nel farsi ritrarre così debilitato. Poi ho capito che entrambi avevano un forte bisogno di parlare del loro dolore, e con l’inizio delle riprese vedevo il beneficio di ciò che stavamo facendo. Lì mi sono convinta che fosse la strada giusta. La psicologia contemporanea ha dimostrato il valore dell’autorappresentazione come mezzo terapeutico, perciò sapevo che sarebbe anche stato un percorso funzionale.
Alla fine, però, è tua madre la protagonista del corto…
Sì. È il pilastro di tutto. Lei, soprattutto, aveva bisogno di essere ascoltata…
Pensi che questa esperienza abbia cambiato il rapporto tra di voi?Sicuramente. Io l’ho rivalutato molto. Ho sempre cercato di fuggire quando non ero d’accordo con i miei genitori per via di certe dinamiche tipicamente familiari che non ho mai condiviso. Attraverso il film, invece, sono quasi stata costretta a rimanerci dentro. In questo senso è una rinascita anche per me!
Ultima domanda: tuo papà ha ripreso la sua Vespa?
Sì!
Rébecca Mathilde Romano-Sénès
No Comment