Sōsuke ha cinque anni, la sua vita è quella di un qualsiasi altro bambino giapponese di una cittadina costiera dove la pesca e la navigazione sono le attività su cui si regge l’economia locale. Il padre di Sōsuke è un navigatore ormai veterano, continuamente in partenza per lunghe spedizioni a largo che lo tengono lontano da casa per settimane. A Sōsuke non resta che pensarlo, emularlo con una piccola nave a candela, ricordarlo con la madre Risa e, ogni tanto, comunicare con lui col Codice Morse tramite le luci di segnalazione della nave quando passa vicino al promontorio dove si trova la loro piccola casa. Il vuoto provocato da ogni partenza del padre logora Sōsuke, che non può concedersi mai una tregua, perché la sua vita viene continuamente scombussolata dalle forti mareggiate che travolgono il suo paesino costiero. In alcuni casi, anche se piuttosto rari, si tratta di veri e propri tsunami che impediscono alle persone di uscire di casa, costrette a guardare da dietro un vetro di finestra il mondo inospitale che le costringe alla reclusione.

Lontano dai propri cari, chiusi tra le mura di casa ad aspettare ormai rassegnati che il mondo si plachi, è la condizione in cui viviamo da marzo. Prima di noi, anche le generazioni precedenti hanno vissuto eventi storici nefasti, in cui il sacrificio costituiva l’unica speranza per sopravvivere e crescere, come individui e come collettività. In questo senso, la storia di Sōsuke, protagonista del film Ponyo sulla scogliera (2008) dello Studio Ghibli – disponibile su Netflix – è una storia molto simile alla nostra, una storia di maturazione e di sacrificio, di mutazione necessaria e costruttiva. Una crescita che non è del solo bambino, ma riguarda ciascuna persona.

Come in ogni sua opera, Miyazaki immerge questa storia di esseri umani – o quasi – in un contesto spiritato, popolato da creature magiche e fantasie fluttuanti, dove la cultura shintoista si manifesta in una società che conosce e regge l’ordine del mondo. L’altra protagonista della storia è infatti Brunilde. Figlia di uno stregone che abita i fondali marini, vive sott’acqua insieme alle sue numerose sorelle minori. Durante una gita si allontana e finisce sulla riva di una piccola città di pescatori, dove viene salvata proprio da Sōsuke, che la ribattezza Ponyo. Con un cuore sincero e le idee molto chiare sul proprio futuro, ora la piccola protagonista si trova di fronte a una scelta: rinunciare al passato, alla magia, alla vita da creatura marina e scegliere una vita semplice ma mai perfetta tra gli esseri umani? Può davvero trovare la felicità in quel mondo malandato e privo di magia, ma ricco di legami affettivi, piccole soddisfazioni e dolci nostalgie?

Ponyo oscilla diverse volte dal mare tempestoso alla terra calma, da Fujimoto a Sōsuke, da Mammare Mammare (madre figurativa, in quanto spirito dell’oceano generatore e genitore di Ponyo) a Risa, la madre umana e di Sōsuke. Un oscillare che è il leitmotiv del film: il moto delle acque è parte integrante della narrazione, e si rispecchia nell’alternanza delle situazioni e degli stati d’animo dei protagonisti. Ponyo è una presenza assenza, così come lo sono i suoi genitori e il papà di Sōsuke. Nella linearità degli avvenimenti e nel fluido mutare dell’oceano, Miyazaki vuole semplicemente dirci che nella vita accadono cose belle e cose brutte, in continuazione, che ci sono persone che arrivano e persone che vanno, e che avvengono anche cose terribili. Un racconto di formazione per adulti e bambini.

Andrea Santini