Voto

8

L’attesa per l’uscita in sala del Piccole Donne di Greta Gerwig era alle stelle da quando, circa due anni fa, era uscita la notizia che la regista avrebbe messo mano a uno dei tesori nazionali statunitensi per realizzare un nuovo adattamento del romanzo di Louisa May Alcott (il quarto, senza contare le due copie mute del ’18 e del ’19 andate perse). Dopo il successo del suo esordio registico Lady bird (2017) e una carriera maturata nel migliore cinema indipendente americano, il nome Gerwig è da solo garanzia di freschezza e sensibilità di sguardo, oltre che di un approccio innovativo alla materia narrativa.

Promesse assolutamente mantenute dal film, che dalle prime sequenze si distingue per vitalità di emozioni e spontaneità d’animo. Gerwig sceglie di intrecciare l’infanzia in casa March con le esperienze adulte delle sorelle e i fatti narrati in Piccole donne crescono. Ma non si tratta di un’alternanza netta tra presente e passato, piuttosto di un movimento emozionale nel tempo e nello spazio che approfitta della già consolidata conoscenza dei fatti narrati da parte del pubblico per godere di maggiore libertà nell’indagare i caratteri delle protagoniste e nel rintracciare in episodi fanciulleschi l’origine delle loro personalità adulte.

Casa March, in questo senso, si configura come il cuore pulsante della famiglia e l’aria che lì si respira – i sorrisi amorevoli di Marmee (Laura Dern), il camino sempre acceso e la tavola sempre imbandita – è la linfa vitale che anima Jo, Amy, Meg e Beth. Veniamo introdotti nel salotto March attraverso gli occhi meravigliati di Laurie, che vi entra per la prima volta da estraneo quanto lo spettatore, e subito veniamo investiti dal suo calore (grazie anche al filtro aureo che la regista fa apporre per le sequenze domestiche). Tra le stanze sempre affollate, la macchina da presa scorre con nonchalance da una sorella all’altra, catturando le dinamiche relazionali in modo spontaneo e all’apparenza casuale, soffermandosi sull’espressione scontenta di Jo e subito dopo su un gesto civettuolo di Meg. Come se i caratteri dei personaggi affiorassero senza sforzo e con naturalezza davanti all’obiettivo.

La stessa naturalezza si riscontra nei rapporti umani che le sorelle intrattengono tra loro e con il mondo esterno. Dopo un’iniziale titubanza – una strizzata d’occhio intelligente celata nella riluttanza ad accogliere un uomo in un club “di sole donne che si travestono da uomini” –, Laurie viene accolto con affetto e disinvoltura dalle sorelle, con uno spirito inclusivo di rara genuinità. Così avviene per John e il sig. Lawrence. L’unico rapporto stridente è quello tra Jo ed Amy, da sempre ravvivato dagli animi turbolenti delle due. Ma se nel romanzo Amy è dipinta come la giovane bambolina capricciosa e viziata, qui Florence Pugh è da subito ritratta come una giovane donna determinata, impetuosa e passionale. Non è l’opposto di Jo (Saoirse Ronan), come da tradizionale rappresentazione, ne è semmai il completamento. Amy e Jo sono una coppia magnetica, brillano sullo schermo e fanno scintille, distinguendosi come uno degli elementi di maggiore innovazione del film.

Nonostante lievi eccessi nell’esplicitazione della morale del romanzo – pensiamo ai monologhi fin troppo didascalici affidati prima a Amy poi a Jo – è sufficiente la caratterizzazione dei personaggi che Gerwig mette a punto per regalare al cinema quei nuovi modelli femminili di cui abbiamo disperato bisogno.

Giorgia Maestri