C’è una squadra in Sud America che miscela aggressività, pressing togli fiato, intelligenza e tanta concentrazione: è la Nazionale cilena. Gary Medel, mediano soprannominato affettuosamente “pitbull”, ne è il simbolo: non è capace di raffinatezze, ma di un calcio efficace, sporco e diretto. Il cinema di Pablo Larrain è come Gary Medel. I due sono infatti legati da un filo rosso chiamato Santiago del Cile, dove il primo è nato nel 1976, l’altro nel 1987: Larrain tre anni dopo il colpo di Stato di Pinochet, Medel quasi a chiusura di questo ciclo. E da questa città hanno preso l’anima.

Riproposti dal 2 al 7 maggio allo Spazio Oberdan di Milano, i lavori di Larrain si alimentano dalle radici di questa terra orgogliosa e climaticamente disomogenea: c’è il Nord quasi completamente arido e il centro vivibile e temperato; e Larrain è duplice come il suo Paese, a volte timido, a volte brutale.

Per un posto d’onore nell’Olimpo del grande schermo internazionale, il regista cileno ha deciso di servirsi della storia recente e di raccontare un Paese tutt’oggi ossessionato dal proprio passato: questa è la cosiddetta “Trilogia di Pinochet”. È difficile parlare di dittatura in Cile. Nonostante la democrazia abbia raggiunto la maggiore età, il numero delle produzioni a tema resta modesto, e gli incassi mediocri della trilogia di Larrain parlano chiaro: c’è ancora bisogno di tempo e di nuove generazioni per digerire il marcio, ma è comunque forte bei cileni il bisogno di raccontarsi. Com’è possibile, però, rappresentare la dittatura senza averla realmente vissuta? Nonostante si sia formato in una famiglia di politici idealmente vicini a Pinochet – come ha dichiarato in un’intervista rilasciata lo scorso 17 marzo al “The Guardian”–, Larrain è comunque stato educato alla libertà, atteggiamento che caratterizzerà la sua stessa cinematografia; così, per riuscire a raccontare l’orrore, si è caricato sulle spalle il sentire comune del proprio Paese, pur non avendolo vissuto in prima persona.

tony manero

Dopo l’esordio di Fuga (2006), Larrain dirige Tony Manero (2008), una metafora macabra del disagio degli anni Settanta in una Santiago ripugnante, abitata da piccoli criminali di mestiere, i “cani randagi”. Uno di questi è Raùl Peralta (Alfredo Castro), ossessionato da Tony Manero e La febbre del sabato sera (1977). Il protagonista rappresenta un Paese capace di abbassare lo sguardo, di trascurare il senso di giustizia, di dimenticare tutto a ritmo dei Bee Gees; Raùl è un vile, un assassino senza scrupoli, il riflesso della cultura di regime. In questo film, così come nei successivi, Larrain mette in evidenza il conflitto generazionale che, questa volta, ha sicuramente vissuto sulla propria pelle: Cony (Amparo Noguera) e sua figlia sono due facce di uno stesso decennio. Tuttavia, la critica politica è quasi completamente assente: pochi i cenni alla dittatura, e ancora meno i riferimenti a Pinochet; Larrain è più interessato all’atmosfera.

Due anni più tardi esce Post Mortem (2010), il secondo capitolo della saga. In questo suo terzo lavoro, Larrain predilige inquadrature fisse, scene lente ed esageratamente lunghe. Questa volta racconta gli inizi, il colpo di Stato dell’11 settembre 1973, e un amore singolare finito in tragedia: è la storia di Mario Corneo (Alfredo Castro), dipendente dell’obitorio di Santiago. In questi due primi capitoli della trilogia i personaggi di Larrain non intraprendono alcuna evoluzione; restano gli stessi nonostante i profondi cambiamenti storici, adattandosi con molta fatica: Mario Corneo non è altro che un Raùl Peralta perbene, un uomo discreto, solitario e apparentemente impenetrabile, capace però di compiere il più feroce dei crimini. 

post mortem

Se nella prima pellicola il regista cileno aveva evitato contatti diretti con la dittatura, in Post Mortem il regime assume finalmente un volto, quello delle salme dei soldati fra i corridoi dell’ospedale: come in Tony Manero, è palese una ricerca dell’orribile, di un’estetica del brutto che disgusta e provoca un’insopportabile nausea.  Il titolo, inoltre, è un chiaro messaggio politico: Larrain sembra aver superato l’imbarazzo di una presa di posizione, schierandosi nettamente dalla parte dei vinti e identificando con precisione il male. Tendenza che diventa ancor più esplicita nell’ultimo tassello della trilogia: No – I colori dell’arcobaleno (2012), il momento più alto della sua cinematografia.

Larrain sceglie la storia della televisione per raccontare la campagna del “NO” relativa al referendum già citato del 1988. Rene Saavedra (Gael García Bernal) è un protagonista complesso, è un giovane creativo della Tv cilena, pioniere di una nuova idea di pubblicità “in linea con il contesto sociale”, frutto maturo della politica culturale della dittatura: la sua pubblicità “artificiosa” affonda le proprie radici nella propaganda di Pinochet. Il regista fornisce così una personale interpretazione alla vicenda: è Pinochet ad aver gettato le fondamenta della la sua stessa disfatta finaleGirato con macchine da presa Ikegami anni Ottanta e in 4:3, Larrain riesce a regalare una perfetta omogeneità alla pellicola, sempre equilibrata fra girato e materiale d’archivio. La lunga marcia verso la vittoria è scandita da fervidi colpi alle spalle fra i due schieramenti ideologici che, però, una volta interrotta la competizione referendaria, si ricongiungono come se, gettando alle spalle quel passato recente, si potesse cancellare tutto il loro trascorso.

Questa è la critica di Larrain, l’ennesimo spunto di riflessione di un cinema in crescita.

Marco Mingolla