MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso museale cinematografico attraverso mezzi diversi: i film, che possono essere in Cartellone o a noleggio, il Feed, che mostra cosa guardano gli altri utenti, il Notebook con notizie, interviste, reportage, approfondimenti; e ancora, la Comunità, ovvero il social di MUBI integrato a tutti gli altri, i Focus, gli Speciali e le Retrospettive. Ogni giorno viene proposto un nuovo film, che resta visibile per un mese e viene poi sostituito da un altro, in una rotazione continua. Dal 20 maggio 2020, MUBI ha introdotto la sezione Videoteca: una libreria di centinaia di titoli a completa disposizione di tutti gli utenti.

Questo mese ci inoltriamo in un viaggio nelle periferie del cinema. Periferie intese come luoghi ai margini delle filmografie, oltre che ai margini dei grandi centri nevralgici del mondo. Spesso, infatti, quando si parla di grandi autori si tende a citare sempre i loro grandi successi di critica o di pubblico, destinando all’oblio opere considerate secondarie che, in realtà, custodiscono elementi essenziali ad accedere una visione diversa, tridimensionale e sfaccettata sulla filmografia di un dato autore.

Il codardo, Satyajit Ray, India, 1965 (2 maggio)

Specialmente negli ultimi anni, il cinema indiano ha sofferto l’infelice accostamento alla ricca quanto kitsch produzione bollywoodiana, ponendo in secondo piano autori del calibro di Gautam Ghose o Chaitanya Tamhane (regista del recente The Disciple, 2020). Tra i pochi che è riuscito a varcare i confini nazionali c’è Satyajit Ray, conosciuto soprattutto per i suoi lavori più noti, come La sala della musica (1958) o la Trilogia di Apu. Ma gran parte del fascino di questo cineasta risieda nelle opere minori, che offrono uno spaccato sincero della società indiana, come Lo straniero (1991), Nemico pubblico (1989) e Il codardo. In quest’ultimo film la scelta di confinare i personaggi in uno spazio definito da cui non possono andarsene è funzionale alla narrazione, ma anche carica di significato simbolico, rimandando alla relazione tra il protagonista e la donna che lo ha amato: lui non riesce a dimenticare una relazione ormai finita, lei si ritrova ancora oppressa da una situazione che pensava relegata nel passato. Lo scontro tra i due personaggi, rimasto insoluto per la codardia del primo, si fa metafora del contrasto tra maschile e femminile, tra mondo rurale ancorato alle tradizioni e mondo urbano dalla modernità assoluta. Lo spunto autobiografico è palese: il regista proviene dalla grande metropoli ed è un autore di film commerciali, l’ex compagna lavora in una piantagione di tè nell’entroterra.

La danza della realtà, Alejandro Jodorowsky, Cile, 2013 (3 maggio)

Con l’avvento dell’home video e di internet, il lavoro di Alejandro Jodorowsky è tornato a essere un cult presso i cinefili di tutto il mondo. A 23 anni di distanza dall’ultimo film, Il ladro dell’arcobaleno (1990), nel 2013 esce nelle sale La danza della realtà, sfidando ancora una volta ogni tentativo di ingabbiare nelle maglie di una definizione il cinema di Jodorowsky. Partendo da uno spunto autobiografico, il film fa un uso massiccio di quegli elementi surreali e metaforici che avevano caratterizzato opere di finzione come El Topo (1970) o La montagna sacra (1973), innescando un duplice gioco tra fruitore e creatore in cui la realtà di un’esperienza di vita vissuta nel mondo della finzione, ovvero il cinema, si fonde con un linguaggio assurdo che allontana il progetto dall’autoreferenzialità. Lo stesso protagonista, nei panni di un prestigiatore, si prende in giro, si guarda da fuori, deforma le proprie esperienze personali e le rende universali, realizzando una favola personale e politica che richiama la freschezza dei suoi lungometraggi di esordio come Il paese incantato (1968) e cita quegli autori che l’hanno formato, primo tra tutti Fellini, che hanno formato l’artista nel suo percorso cinematografico.

Una morte di troppo, Claude Chabrol, Francia, 1985 (9 maggio)

Nella sterminata produzione di Chabrol, la fortunata serie dedicata all’ispettore Lavardin (composta da Una morte di troppo, un sequel e una miniserie televisiva) si colloca in secondo piano rispetto agli altri lavori del regista, più solidi sia per scrittura che per messa in scena. Ma l’influenza di questo progetto sui registi francesi successivi è stata talmente d’impatto che, nel corso dei decenni successivi, in molti hanno tentato di ricostruire quel microcosmo spaventoso quanto impalpabile che è la provincia francese – tra cui P’Tit Quinquin (2014) di Bruno Dumont. Una sorta di versione blu-bianco-rossa della statunitense Twin Peaks. La sensazione di disagio insita nella vita quotidiana apparentemente banalissima di una comunità così chiusa in sé stessa, unita alla presenza di segreti che tutti conoscono ma di cui non si può parlare, unisce questi due villaggi cinematografici da una parte all’altra dell’oceano, entrambi cartine tornasole di quanto diabolico possa essere insito nell’ordinarietà. Nel film di Chabrol la provincia è capace di trasformare un delitto un un evento come altri, che diventa abitudine e viene grottescamente accettato.

Il mistero del marito scomparso, Norman Foster, USA, 1950 (11 maggio)

Molti noir americani, specialmente quelli di serie B, si rivelano più profondi e sfaccettati di quanto potrebbero sembrare, soprattutto quando sono coinvolti registi estremamente espressivi che mal sopportavano le maglie imposte dalle major per i progetti economicamente rilevanti. Nei film di Richard Fleischer, ad esempio, sorvolando sugli stereotipi del genere reiterati fino alla nausea, si possono scovare dettagli nascosti dal taglio ironico e dissacrante, oltre a notare sperimentazioni narrative interessanti – come ne Le jene di Chicago (1952), che traspone in chiave poliziesca La signora scompare (1938) di Alfred Hitchcock. Anche Norman Foster è una personalità particolarmente interessante in questo senso: braccio destro di Orson Welles negli anni Quaranta fino a The Other Side of the Wind (2018), co-diresse insieme a lui un altro noir, Terrore sul mar Nero (1943). Il mistero del marito scomparso è invece un prodotto interamente attribuibile a Foster, che pur non presentando colpi di genio assoluti ribalta con maestria le aspettative e i cliché del genere noir. Se in Terrore sul mar Nero al centro c’erano le peripezie del marito di una coppia borghese, qui la logica si inverte: la moglie diventa un’eroina che cerca di salvare un marito inerme, e tutto si regge sull’interpretazione di Ann Sheridan.

The Trial, Sergei Loznitsa, Olanda, 2018 (24 maggio)

Negli ultimi anni Sergei Loznitsa sta scandagliando gli archivi russi alla ricerca di materiali audiovisivi che permettano di ricostruire, almeno in parte, la storia dell’Unione Sovietica non filtrata dalle lenti della propaganda. Il recente State Funeral (2019) documenta i giorni di lutto nazionale che seguirono la morte di Stalin attraverso immagini mai mostrate al di fuori della cortina di ferro. The Trial si concentra dunque non tanto sul mito del dittatore condottiero, bensì sul potere della repressione che una dittatura totalitaria può infliggere all’opposizione, raccontando come, durante gli anni Trenta, vennero organizzati e messi in scena una serie di processi farsa infamanti, volti a distruggere ogni forma di dissidenza contro il potere centrale. Le riprese, rimontante dal documentarista senza alcun tipo di sensazionalismo, vogliono non solo divulgare una vicenda inedita, ma anche e soprattutto trasmettere al pubblico le stesse sensazioni degli imputati, invischiandolo a tal punto in questo meccanismo di menzogna da arrivare a credere che tutto quello che si vede nel film sia materiale d’archivio genuino (e non è così). La dicotomia tra il linguaggio documentario e di finzione viene abilmente sfruttata da Loznitsa per mettere in scena un sistema politico distorto alla radice, in cui il confine tra la documentazione, tragedia e finzione diventa estremamente labile.

Viaggio a Tokyo, Yasujirō Ozu, Giappone, 1953 (30 maggio)

Insieme a Tarda primavera (1949), in programma nella retrospettiva di MUBI dedicata al regista giapponese, Viaggio a Tokyo rappresenta il punto di partenza ideale per conoscere la filmografia di Yasujirō Ozu. Collocato a metà del percorso artistico del regista, il film prende le distanze tanto dai lavori prebellici e di propaganda realizzati durante il conflitto quanto dalle opere tarde caratterizzate da una riflessione sulla reiterazione cinematografica. Prendendo vagamente spunto da Cupo tramonto (1937) di Leo McCarey, Ozu tesse una dolente riflessione sulla famiglia e il Giappone post bellico, indagando il contrasto che caratterizza non solo due generazioni diverse, ma anche le due città in cui vivono i protagonisti, Onomichi e Tokyo, afflitti da problemi diversi e trainati da priorità altrettanto differenti. In questo film ogni inquadratura e scelta registica sono studiate per veicolare un preciso significato all’interno di questo dramma palpabile e contemporaneo, senza scadere mai nel registro estetico del melodramma.

La rosa sulle rotaie, Abel Gance, Francia, 1923 (31 maggio)

La figura di Abel Gance fu la quint’essenza dell’impressionismo francese, un momento determinante per il riconoscimento del cinema come arte e del potere delle immagini. La rosa sulle rotaie esplicita questa presa di coscienza fin dai titoli di testa, che scorrono sulle riprese di un treno in movimento mentre i binari si ramificano, culminando con l’apparizione dello regista, come a reclamare la paternità dell’opera – non sarà l’ultima volta che Gance impone al pubblico la propria autorialità, visto che nel 1927 concluderà il colossale Napoléon con la sua firma, a coronamento dello spettacolare trionfo di Napoleone e quindi della Francia intera sull’Europa. Pescando a piene mani dall’estetica e dal pathos del melodramma, La rosa sulle rotaie racconta una storia complessa, fatta di amori tormentati, drammi familiari e alcolismo. A oggi di questo film esistono due versioni principali che variano molto per durata e ricostruzione filologica: quella da sette ore, frutto di un recente restauro, e una versione da quattro ore e mezza disponibile sul mercato da diversi anni.

Villa Empain, Katharina Kastner, Belgio, 2019 (Videoteca)

Villa Empain è un piccolo cortometraggio architettonico che racconta una storia attraverso le sfortunate vicende di un edificio. Si tratta della villa realizzata da Louis Empain, il quale aveva immaginato e studiato lo spazio come centro per arte e artisti, donandola poi nel 1934 allo stato belga. Purtroppo, i propositi per cui il complesso venne realizzato furono lasciati cadere nel nulla. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, infatti, l’edificio fu utilizzato per diversi scopi (uno studio televisivo, un’ambasciata…), fino a scivolare in uno stato di completo degrado, e solo negli ultimi anno un restauro ha permesso di riportare lo spazio al suo scopo originario. Il cortometraggio ha infatti come principale obbiettivo quello di dimostrare come un luogo pensato per ospitare la creatività debba a sua volta essere pensato come un prodotto artistico: proprio per questo la lunga storia di Villa Empain viene messa in scena senza parole, utilizzando solo le immagini che a lungo sono venuta a mancare all’interno di questo luogo.

Davide Rui