MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso museale cinematografico attraverso mezzi diversi: i film, che possono essere in Cartellone o a noleggio, il Feed, che mostra cosa guardano gli altri utenti, il Notebook con notizie, interviste, reportage, approfondimenti; e ancora, la Comunità, ovvero il social di MUBI integrato a tutti gli altri, i Focus, gli Speciali e le Retrospettive. Ogni giorno viene proposto un nuovo film, che resta visibile per un mese e viene poi sostituito da un altro, in una rotazione continua. Dal 20 maggio 2020, MUBI ha introdotto la sezione Videoteca: una libreria di centinaia di titoli a completa disposizione di tutti gli utenti.
Mentre ci stiamo lasciando la pandemia alle spalle, il macrocosmo culturale italiano si sta progressivamente riprendendo. Gli eventi sono tornati, i festival stanno riprendendo in presenza, i film vengono distribuiti nelle sale e riecco anche i grandi blockbuster americani che bussano alle porte della nostra industria – come nel caso di Dune. Insomma, c’è sempre meno tempo per stare dietro alle piattaforme online, e per questo abbiamo deciso di dedicare il mese di novembre al cortometraggio, il cui minutaggio si adatta a questo momento frenetico di assestamento, mettendo in risalto opere che spesso vengono totalmente marginalizzate dalla distribuzione nazionale.
Renaissance, Walerian Borowczyk, Francia, 1963 (Videoteca)
Noto nel panorama internazionale principalmente per i suoi lungometraggi erotici, Borowczyk unisce sapientemente un’estetica raffinata a uno studio sulla società, partendo dalle ossessioni sessuali che la caratterizzano a seconda delle epoche. Ma c’è anche un altro lato della carriera del regista, composta perlopiù da cortometraggi di animazione a tecnica mista (stop motion, collage, animazione tradizionale). Rispetto ai film per cui è universalmente conosciuto il regista, questi lavori presentano riflessioni politiche e sociali affidate a un laconico humor nero. Nello specifico, Renaissance anticipa di diversi anni la contestazione giovanile del maggio francese, mostrando in tutta la loro pochezza l’insieme di valori che caratterizza la borghesia francese e la spinta a volere distruggere la tradizione. In questo film, infatti, Borowwczyk distrugge due volte il set, a simboleggiare l’utopia del crollo del sistema borghese, che non potrà mai essere veramente scalfito da un nuovo sistema di valori. Così, prende forma un pensiero che anticipa di decenni le prese di posizioni di numerosi registi, tra cui Michelangelo Antonioni – anche se con toni meno ironici e più consapevoli – e che spingeranno diversi registi italiani a rinnegare il Sessantotto, prendendo atto che a una vecchia classe dogmatica se ne è solo sostituita una nuova.
Histoires de Crevettes, Jean Painlevé e Geneviève Hamon, Francia, 1964 (Videoteca)
I lavori documentaristi di Painlevé costituiscono la base di una scuola di registi affascinati dalla ripresa della natura da vicino e senza alcuna mediazione esterna, ma non solo, perché molti suoi epigoni saranno artisti sperimentali che vedranno nel lavori del regista delle suggestioni visive d’avanguardia. MUBI propone un vasto catalogo di cortometraggi del genere, tra cui questo studio della vita quotidiana dei gamberetti, che si rivela molto di più di una distaccata analisi scientifica. Il regista è infatti interessato a mostrare questi esseri acquatici nel modo più antropomorfizzato possibile, privilegiando a una visione d’insieme uno sguardo individuale su un singolo gamberetto. La sua lotta per la sopravvivenza assume così dimensioni eroiche, braccato dagli altri simili in una lotta per la supremazia e dagli esseri umano che lo vogliono gustare a tavola. L’impotenza del protagonista, unita a una visione quasi onirica del mondo marino, trasfigurano un semplice soggetto naturalistico in un protagonista titanico che lotta contro un destino tristemente segnato. Ed è questa marcata simpatia del regista per quello che riprende a rendere i suoi ultimi lavori intimi e magici.
Hey, You!, Péter Szoboszlay, Ungheria, 1976 (Videoteca)
L’animazione proveniente dall’Europa dell’Est si sviluppa in un contesto culturale in cui questo genere ha esclusivamente un target infantile e anzi lavora sulle suggestioni visive per parlare di temi anche particolarmente spinosi, mascherati sotto a complesse quanto affascinanti visioni criptiche. Non è dunque un’eccezione il cortometraggio di Szoboszlay, che si basa proprio sulla costruzione di un mondo da incubo in cui l’unico luogo in cui sentirsi al sicuro è la propria piccola casa. La minaccia politica e sociale elimina la possibilità della bellezza, visto che tutte le visioni positive si trasformando presto in scenari infernali, deformati e spaventosi. A questo si aggiunge l’instabilità del singolo individuo e la paura di una guerra imminente, che ora si è tinta di toni post atomici. Come spesso accade in lavori simili, viene negato il lieto fine e rimane solo la consapevolezza che il regime, poco alla volta, cercherà di eliminare anche questi stessi lavori di animazione, spegnendo sul nascere le possibilità di una nuova generazione di artisti dissidenti.
Scenes with Beans, Ottò Foky, Ungheria, 1976 (Videoteca)
Questo film, astratto e disumano, rappresenta scene di vita quotidiana di una città in cui i fagioli prendono il posto degli esseri umani, osservati dall’alto da visitatori provenienti dallo spazio profondo. Da lontano, la città nel suo insieme sembra funzionare alla perfezione, ma avvicinandosi viene tradita una progressiva perdita di umanità che caratterizza i fagioli della metropoli, sempre più spersonalizzati, inseriti in continui momenti collettivi come un drive in all’aperto o una partita allo stadio. Tutte le azioni dei cittadini devono essere rivolte al corretto funzionamento del mondo che li circonda, eliminando l’ozio e ogni attività non produttiva. Quello che permette al cortometraggio, interamente realizzato in stop motion, di funzionare è la costruzione metodica degli spazi e dei movimenti di massa nei set, che veicolano messaggi funzionali alla satira del progresso e del potere autoritario.
Maillart’s Bridges, Heinz Emigholz, Germania, 2000 (Videoteca)
Lo studio degli spazi architettonici è uno dei principali interessi di una certa corrente del cinema sperimentale contemporaneo, di cui Emigholz è uno dei massimi esponenti. In questo cortometraggio il regista analizza quattordici ponti realizzati da Maillart nel primo trentennio del Novecento in Svizzera, Francia e Germania, attraverso inquadrature fisse e statiche, quasi fotografiche, prive di accompagnamento musicale o di spiegazioni teoriche – tutti tratti caratteristici del cinema successivo del regista. Gli spazi vengono mostrati fin nei minimi dettagli tramite le sole immagini, privando il cinema dalla sua funzione di intrattenimento per usarlo come strumento di registrazione oggettiva del reale. Per mettere in scena un soggetto impalpabile come l’evoluzione di uno stile architettonico o l’equilibrio di una costruzione nel contesto in cui è stata progettata, il montaggio risulta cruciale, e rapidamente prende il posto della regia nel costruire il discorso, reggendosi su analogie visive e contrapposizioni spaziali. L’elemento umano viene completamente eliminato e i soggetti presi in esame si stagliano all’interno di ambienti fantasma, dove prende il sopravvento l’armonia delle forme di edifici, viadotti e ponti, di solito considerati talmente scontati nella nostra vita quotidiana da non essere nemmeno presi in considerazione per la loro estetica.
(Sic), Eric Baudelaire, Francia, 2010 (Videoteca)
Questo cortometraggio di 11 anni fa dimostra come il cinema riflette già da tempo sul concetto di Cancel Culture e sul potere di cancellare l’espressione o le immagini. Baudelaire, sfruttando il suo stile da documentarista, mette in scena la strana vicenda di una libraria giapponese che ha il pieno controllo dei libri che vengono venduti nel suo negozio: i titolari decidono cosa mostrare e cosa censurare, agendo direttamente sulle foto e raschiando gli elementi considerati scomodi. Vengono cancellati genitali femminili, cartelli stradali, monumenti e perfino foto storiche che rappresentano le rivendicazione sindacali giapponesi negli anni Sessanta, spersonalizzando gli operai. Dieci anni fa, come oggi, la censura non è più messa in pratica a livello amministrativo, ma ciò non significa che non esista: vien esercitata in fase di produzione, bloccando sul nascere tutte quelle opere chee si pensa non adatte al pubblico, che come il cliente di questo negozio compra ignaro volumi che sono già stati creati sotto il segno della censura.
Kokutai, Ryushi Lindsay, Giappone, 2019 (Videoteca)
Kokutai riflette sulla commistione che sta avvenendo in Giappone tra tradizioni nazionali e influenze internazionali, concentrandosi su uno sport che è stato introdotto nell’arcipelago proprio dagli americani. Ryushi Lindsay cattura i rituali sportivi dei tornei dei college, mettendo in luce come anche in momenti pacifici come questi venga esaltata un’inclinazione marcatamente nazionalistica e imperiale, e il cortometraggio, infatti, non manca di tracciare subito subito un parallelismo tra le sfilate dei giocatori e l’attenzione data ai vessilli delle squadre con episodi della storia recente giapponese. Oltre a questa riflessione, però, emerge anche un inno alla dimensione universale dello sport e dei suoi riti, riprendendo la visione di Desmond Morris, che dedicava un suo celebre trattato alle tribù del calcio, descrivendole come i residui di un mondo militare e frammentato all’interno di una società pacificata e unificata. Un mondo che è destinato a scomparire, inghiottito da un modello americano di sport come spettacolo di intrattenimento.
Play it Safe, Mitch Kalisa, Regno Unito, 2021 (Videoteca)
Molto apprezzata negli Stati Uniti, l’opera prima di Mitch Kalisa affronta il razzismo all’interno di un safe space, uno spazio progressista in cui si pensa che un fenomeno come questo non possa trovare spazio. In questo mondo ipocrita, spesso gestito da donne bianche privilegiate, le persone nere sono ancora viste come diverse, ma questa distanza viene celata da belle parole e proclami di uguaglianza. L’esempio messo in scena nel film è una scuola di recitazione, dove il protagonista è l’unico studente nero della classe e gli altri cercano di metterlo a suo agio, ad esempio offrendogli una parte stereotipica legata all’immaginario del gangster, o quando scoprono che deve imitare un gorilla in un esercizio e cercano imbarazzati di fargli cambiare animale. Ma è proprio l’attenzione spasmodica a non offendere che limita l’espressione del protagonista, che si rende conto di potersi esprimere liberamente solo se non vincolato da un sistema di valori imposto da altri.
Davide Rui
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