Una sillaba tira l’altra in una cadenzata trafila di allitterazioni: “Dog man star took a suck on a pill / and stabbed a cerebellum with a curious quill”. Una litania di apparizioni nebulose si accumula in uno scioglilingua che frustra l’immaginazione dell’ascoltatore: dove vuole andare a parare Brett Anderson con il suo monotono gracidio? Nell’ermetico testo di Introducing The Band, i vari tasselli concettuali non combinano mai tra di loro, come le facce di un Cubo di Rubik irrisolvibile.
Dog + Man + Star = ?
Anche la combinazione dei suoni è un impasto tra movimenti contrastanti: il basso di Mat Osman scava cunicoli come una talpa e, appena arriva in superficie, si cala di nuovo nell’oscurità, mentre un simil-sitar gronda sulla testa di Brett e della sua cricca come una pioggia ferruginosa. Ma il nostro cantore va dritto per la sua direzione: con una nenia costruita su due note ci conduce a tradimento nel bel mezzo del marasma creativo dei Suede, che nel 1994 erano un geyser di lirismo.

Finita la processione di Introducing The Band, Brett si butta nel primo cerchio di fuoco, We Are The Pigs, sferzata dalla chitarra squilibrata dello squilibratissimo Bernard Butler, che non avrebbe concluso la lavorazione dell’album a causa del suo odio sanguinario nei riguardi del produttore Ed Buller. La melodia è l’apoteosi del tormento e dello struggimento romantico, perfetta per la voce di Anderson, abituato a cantare sul ciglio dell’emorragia alle corde vocali. La sensazione che fa trapelare è malsana ed emozionante: esprime il fascino del logoramento graduale, della navicella spaziale che si sfascia progressivamente attraversando le atmosfere più ruvide.

L’estetica del magnifico logoramento è coltivata anche da Heroine: “I’m aching, being dying for hours and hours” dice il testo, nel corso di un tira e molla vocale estenuante, mentre i componenti della band (dal battagliero Butler al batterista Gilbert) incrociano le spade riempiendo il pezzo con un clangore traumatico. L’animo gentile – ma pur sempre larger than life – dei Suede emerge nel brano successivo, intitolato paradossalmente The Wild Ones, in cui tutto si assottiglia: Brett, con la sua voce umorale, si cimenta in una tipologia di canzone che non ha segreti per lui: la serenata in mezzo alla monnezza, genere che rilancerà, per esempio, con la dolcissima Picnic By The Motorway, nel successivo Coming Up (1996).

New GenerationDaddy’s Speeding è un brano dolorante e deforme, in cui la voce di Anderson viene filtrata e strangolata in sinistri singhiozzi, mentre il sintetizzatore ansima e la chitarra stride: si viene a creare una specie di musica concreta, che dà suono e corpo alla folle corsa di una macchina suicida, fino all’inevitabile botto.
La circolazione riprende con la più leggiadra The Power, celestialmente prodotta, in cui il basso e la batteria assecondano il trotterellare di Brett nel suo itinerario lirico più quieto, mentre la benevola chitarra (non a caso non maneggiata dall’irrequieto Butler) fornisce stringati commenti bucolici. Ma rieccola che raspa insistentemente (di nuovo in mano a Butler) in New Generation, formidabile compromesso tra una voce pericolante ma vitale e ritmi impietosi, come accadeva nei brani più memorabili dell’album di debutto dei Suede (a cominciare da So Young).

Annunciata da un sax disastrato, giunge una parentesi rumorista, This Hollywood Life, che nella sua malagrazia accresce la delicatezza dei brani successivi: The 2 Of Us – che comincia tutta guardinga prima di dar sfogo a una fibrillazione melodrammatica ancora contenuta (rispetto a ciò che accadrà tra poco) – e Black Or Blue, il parco giochi dei falsetti di Brett. Ma l’umore della band non si stabilizza mai: le tentazioni progressive di Bernard Butler si addensano con tutta la loro turbolenza sull’atmosferica e morbosa The Asphalt World, che sopravvive alla ragguardevole durata di nove minuti e mezzo catapultando lo spettatore al centro di un poema sinfonico totalmente noir.

Ma una volta finite le mattane di Butler, (ri)cominciano quelle di Anderson e del produttore Buller: Still Life è un diluvio orchestrale imbarazzante e mozzafiato. Brett si espone nella sua nudità mentre nuvoloni di archi si addensano, per poi tentare di cavalcare i cavalloni dei violini e dei violoncelli. Persino l’ascoltatore esce fradicio dall’ascolto, sopraffatto dalla potenza di questo acquazzone finale, uno di quei rari momenti pop in cui la pomposità diventa una dea da venerare e corteggiare.

Andrea Lohengrin Meroni