Manchester by the Sea procede pianissimo come direbbe Sbarbaro. Il ritmo della sceneggiatura rompe e ricompone i silenzi nel freddo della cittadina americana del titolo; l’impeto del non-detto, la foga e la rabbia del protagonista si empatizzano nella colonna sonora (Lesley Barber). Lee (Casey Affleck) ha appena perso il fratello Kyle e deve fare ritorno nella sua città natale per svolgere il ruolo di tutore del nipote Patrick (Lucas Hedges). Il montaggio alternato porta una domanda: Perché Lee se n’è andato?

Il tema della pellicola è il dolore della perdita, ma sopratutto l’impreparazione che lo segue e precede. Il volto di Affleck dice questo: spaesato, logorato, impassibile. Lonergan rimane dentro i suoi i personaggi, in equilibrio tra dramma e ironia, fra luce e ombra. Il film avanza seguendo la grammatica greca della dualità freddo-caldo, neve-fuoco, calma-tempesta, prima-dopo, che culmina con l’incontro fra Lee e l’ex moglie Randy (Michelle Williams). Mentre lei scende e lui cammina in salita, le parole vanno sempre più veloci; gli sguardi, al contrario, si fanno meno insistenti. Il dialogo per l’unica volta si inspessisce ed esplode nel pianto di lei, mentre in lui l’emozione resta (come sempre) inesplosa.

Manchester by the Sea non racconta, mostra: nel dialogo fra Randy e Lee, nel suo tentativo di uccidersi, nell’apparente leggerezza di Patrick, nella terra gelata e poi pronta ad aprirsi alla primavera; non c’è alcun racconto della perdita, né dei suoi effetti, né delle sue implicazioni future; il ping pong narrativo isola il presente come unico tempo della perdita. Non c’è una spiegazione al dolore, né dato per scontato che sarà metabolizzato.

Il valore della pellicola è nell’idea di non imporre al dramma il coraggio dell’eroe, di rifiutare la spettacolarizzazione; Manchester by the Sea spiega che la cognizione del dolore non vuole insegnare niente a nessuno.

Davide Spinelli