Uno sfarzo digitale avvolge Los Angeles. Tutt’intorno brilla la tecnologia, un’intensa connettività tra uomo e macchina perfettamente integrata nella quotidianità. È in questo futuro imprecisato e distopico che vive Theodore (un incredibile Joaquin Phoenix), uno scrittore che per professione elabora lettere, biglietti e note a nome di altri, per aiutarli a mettere nero su bianco i propri sentimenti. Ha da poco chiuso la relazione più importante della sua vita con Catherine (Rooney Mara), sua compagna fin dall’infanzia. La sua esistenza è un turbine di echi del passato: è incastrato in una routine che lo intorpidisce e nella quale rimbomba un profondo vuoto.

Incuriosito da una pubblicità, Theodore decide di acquistare un sistema operativo dall’elevatissima intelligenza artificiale. Un OS capace di apprendere e di sviluppare, giorno per giorno, una psicologia propria. Uno strumento talmente avveniristico che, alla prima accensione, si autodetermina in quanto “essere” di sesso femminile, che risponde al nome di Samantha (alla quale presta la sua seducente voce Scarlett Johansson); quasi si trattasse di un essere umano in scatola, come il genio della lampada di Aladino.

L’assenza del corpo di Samantha instilla un profondo e subdolo disagio nello spettatore: lo costringe ad accettare un rapporto così unico e per di più a viverlo dal punto di vista di Theodore, a condividere con lui la nascita e il declino di questo strano rapporto amoroso e, soprattutto, a osservarne gli effetti sul suo corpo. Si riesce dunque a empatizzare con Samantha, ma la mancanza della sua fisicità porta inevitabilmente lo spettatore a focalizzarsi su Theodore e, pertanto, sui problemi con i quali gli esseri umani in generale hanno a che fare. Ed è qui che risiede la grandezza di Lei, il ritorno alla regia e alla sceneggiatura di Spike Jonze, che con questo film si è guadagnato la vittoria di un Oscar proprio per la Miglior sceneggiatura originale.

Theodore è affascinato da Samantha, esattamente come lo sarebbe se fosse in carne e ossa, e lo è a tal punto da credere d’innamorarsi di lei: rappresenta il perfetto chiodo che schiaccia la tristezza in cui Theodore ha vissuto fino a quel momento. L’essenza di Samantha è però virtuale, per quanto assimilabile a quella di una donna reale, e questo porta Theodore a viaggiare su un doppio binario: il senso d’iniquità e di inadeguatezza dovuti a un rapporto virtuale senza possibilità di sviluppo e l’incapacità di vivere e gestire delle emozioni, di fatto, reali.

La regia non spicca per grandi movimenti di macchina, ma per il meraviglioso framing delle immagini. Ogni inquadratura, da sola, racconta del mondo di Theodore senza per questo farlo sembrare statico. Ad accompagnare la regia e una sceneggiatura dai contorni poetici, drammatici e a tratti anche inquietanti c’è la magistrale fotografia di Hoyte Van Hoytema, già collaboratore di Tomas Alfredson (La talpa, 2012) e di David O. Russel (The Fighter, 2011).

La vita del protagonista scorre tra tinte tenui, quasi pastello, che rivestono la sua esistenza di un’aura onirica, specchio della sua interiorità, e suggeriscono allo spettatore che è possibile dare un corpo, man mano sempre più definito, al personaggio di Samantha. Fondamentale, quindi, anche l’uso dei colori: il rosso (il colore dell’interfaccia con cui si presenta il sistema operativo), che già all’inizio del film suggerisce cosa sta sbocciando nella vita di Theodore, con lo scorrere del tempo diventa il filtro principale che domina la fotografia, insieme al giallo sbiadito dei ricordi condivisi con Catherine e al blu/grigio della solitudine. In un’intervista per “ICG magazine”, Van Hoytema ha dichiarato che Jonze gli aveva chiesto di dipingere una Los Angeles soft, quasi “sognante”, che non avesse nulla a che fare con la distopia e l’aria minacciosa il genere del film porta solitamente con sé.

È infatti frequente nel film l’utilizzo di lenti da 35 e 70 millimetri, capaci di catturare in modo incantevole tutti i flare delle luci (specialmente per le immagini in notturna) e di dare un tocco intimo e quasi romantico alle scene.

Il sonoro, per ovvi motivi, riveste un’importanza unica in questo film: la voce di Scarlett Johansson riesce a conferire a Samantha i contorni di una donna con un’interiorità ben definita, nonostante non abbia una forma concreta. Risulta inoltre bilanciato l’uso della musica (su cui, tra tutte, merita la menzione d’onore la commovente Photograph degli Arcade Fire), che cede il passo a un silenzio struggente nei momenti più drammatici.

Lei è una storia sulle irrequietezze umane e su come l’amore, in fondo, sia il motore unico delle nostre vite, in qualunque forma si presenti.

Caterina Prestifilippo