Matteo Garrone è un regista da tenere d’occhio. E non soltanto perché lo scorso 25 settembre è stato annunciato che sarà Dogman a rappresentare l’Italia nella corsa all’Oscar per il Miglior film straniero. Il fascino del suo lavoro ha radici ben più profonde, tanto robuste da aver portato il Milano Film Festival a dedicargli la retrospettiva principale di questa XXIII edizione. E così, nella cornice di un tranquillo lunedì milanese grigio e piovoso, ieri sera lo Spazio Oberdan ha dato il benvenuto a una coppia singolare: Matteo Garrone e lo scrittore Antonio Scurati, da pochi giorni nelle librerie con Il figlio del secolo, autobiografia immaginaria di Benito Mussolini. Un incontro unico: due eccellenze italiane a confronto sulla poetica di uno dei registi più celebrati e difficilmente classificabili del panorama internazionale.

Scurati non fa sconti. “Quando l’ho conosciuto avevo appena visto L’imbalsamatore” racconta, ricordando il suo primo contatto con il regista. “Mi aspettavo un autore cupo, un intellettuale anche nel senso peggiore del termine: cervellotico e cervellone, scostante, antipatico… insomma, un po’ come me”. E invece arrivò “un simpaticone”, scevro di tutta quella dimensione oscura che traspare dalle sue immagini. Immagini che Scurati definisce senza remore “terribili”: simbolo di un amore per la vita che emerge dalle tenebre, di un fascino per gli abissi profondi dell’animo umano, restandone contemporaneamente ammaliato e terrorizzato. “Sono sempre stato inconsapevole del mio terrore – si giustifica Garrone. Giuro che ho provato a fare dei film comici, anzi, spesso ero convinto che alcuni miei film sarebbero state delle commedie. Ma con il tempo ho imparato che fare un film è come comporre un mosaico. Ogni tassello ha un colore che scegli, ma è troppo influenzato dai colori di quelli che ha accanto”.

Quello di Garrone è stato un percorso sui generis. Dopo l’esordio nella pittura è arrivato alla settima arte da autodidatta, quando il compagno di sua madre, il direttore della fotografia Marco Onorato, gli ha regalato qualche metro di pellicola in eccesso. Lui l’ha tenuta in frigo, fino al momento in cui è arrivata la folgorazione: non sulla via di Damasco, ma per le strade della periferia romana. “Stavo guidando fuori dal centro di Roma… e all’improvviso eccola lì. Un’immagine bellissima: sullo sfondo dei campi, un gruppo di donne nigeriane, strette in abiti coloratissimi, prostitute circondate da contadini e bicilette”. Colpito da questo scorcio, non per il suo valore sociale ma per la sua unicità espressiva, il giovane Garrone ha preso quei metri di pellicola per girare il suo primo cortometraggio (più tardi inserito nel film Terra di mezzo, 1996).

Un esordio imprevisto, votato a un’idea precisa: la libertà. Con un’incoscienza di cui si dimostra molto fiero, Garrone racconta dei primi esperimenti cinematografici insieme agli amici, un gruppo di sette o otto “disperati” impegnati a realizzare film che sarebbero poi stati selezionati ai festival e distribuiti da Nanni Moretti, fino alla svolta negli anni Duemila con L’imbalsamatore (2002). Durante il suo percorso Garrone non ha mai perso il proprio approccio artigiano, “materico”. Lo ha dimostrato anche dopo Gomorra, il cui successo internazionale ha portato grandi strutture produttive a finanziarlo, o durante i suoi lavori con grandi star come Vincent Cassel e Salma Hayek ne Il racconto dei racconti, o, ancora, tornando a uno spirito più amatoriale con Dogman (il cui ruolo da protagonista è stato ceduto all’amico Marcello Fonte, Palma d’oro per il Migliore attore al Festival di Cannes).

Non sembra dunque un caso che un autore così legato al lato artigianale e materico del suo modo di fare arte – e senza definirsi intellettuale, anzi, rifuggendo sempre una simile posizione –, stia lavorando a un film su Pinocchio. Lui, novello Geppetto che costruisce i suoi film con precisione maniacale, sta girando in sequenza, seduto in macchina e non sulla poltrona del regista, dove sarebbe troppo lontano da tutte le “folgorazioni” creative che potrebbero colpirlo durante la lavorazione del film. Così, fra l’intervento dello Sgargabonzi, che Garrone definisce “il più grande comico italiano”, e la presenza assente di Nanni Moretti che torna e ritorna nel discorso, si chiude in risate un incontro che non è stato tanto una masterclass, quanto più una chiacchierata.

Si chiude l’incontro, e inizia subito la retrospettiva, che si apre con la proiezione di Estate romana (2000). I prossimi appuntamenti saranno allo Spazio Oberdan mercoledì 3 ottobre alle 19.00 con Terra di mezzo e venerdì 5 con Ospiti (1998). Un’occasione ghiotta per recuperare gli esordi di un autore fra i più brillanti del nostro cinema, in attesa che la sua buona stella ci porti addirittura fino a Hollywood.

Stefano Monti