Nata nel 2010, Headspace è una delle applicazioni di healthcare, meditazione e mindfulness più utilizzate del momento. Attraverso le sue numerose funzionalità, infatti, ci guida alla scoperta del nostro benessere mentale, insegnandoci a occuparcene con regolarità, dandoci istruzioni semplicissime, alla portata di chiunque, e inviando comodi reminder per non smettere di usarla nel giro di un paio di giorni. Questo mese Headspace ha fatto un ulteriore passo verso il proprio pubblico, arrivando su Netflix sotto forma di serie tv, attraverso una trasposizione che ibrida il linguaggio cinematografico a quello del podcast – sulla scia di Midnight Gospel. Cosa succede, dunque, quando il testo originale da adattare per un prodotto audiovisivo è un’app?
Le Guide di Headspace: Meditazione è solo la prima delle tre stagioni con cui l’applicazione verrà duplicata su Netflix, mantenendo la narrazione in voice over della voce calda e rassicurante di Andy Puddicompe, fondatore di Headspace ed ex monaco buddista, che accompagna il pubblico in un percorso di otto episodi da venti minuti alla scoperta della meditazione e della mindfulness. Ogni puntata si incentra su un tema, un “How to” specifico, a partire dallo spunto fornito ogni volta da un breve racconto autobiografico dello stesso Puddicompe, per poi passare dalla teoria alla pratica, sviluppando consigli, indicazioni e istruzioni per cimentarsi in diverse forme della meditazione. A fare da filo conduttore, una sorta di white noise costante di sottofondo, è un antagonista perenne: lo stress generato dai nostri pensieri, considerato un corpo estraneo, una reazione di rifiuto del nostro organismo a una sovrabbondanza di stimoli esterni.
Ma ciò su cui Headspace vuole farci riflettere è l’esistenza di un altro tipo di stress, molto più sottile, camuffato e subdolo, e forse pure più nocivo di quello da alienazione lavorativa o da chiasso metropolitano con cui ormai abbiamo accettato di convivere. Le situazioni di isolamento ed inattività, di mancanza o riproposizione in loop degli stessi stimoli – proprio come quelle in cui ci troviamo da un anno a questa parte – portano a quello che potremmo definire uno “stress calmo”, congiunto non troppo lontano della “strenua inertia” Oraziana. Un aspetto della nostra quotidianità che abbiamo imparato a conoscere nell’ultimo, iper-narrato e infausto 2020, e che ha colpito in particolare gli strati più giovani della società. Le guide alla meditazione di Headspace ci aiuta non a combatterlo, bensì a individuarne i trigger, quegli elementi che lo innescano e lo diffondono.
Fin dall’infanzia la noia è parte integrante della nostra quotidianità: cercavamo un gioco, ci entusiasmavamo per le novità che apportava nella nostra vita, ci abituavamo alle sue caratteristiche, per poi abbandonarlo nella grande cesta dei giochi vecchi. E il ciclo ripartiva da capo con il gioco successivo. Da questa esperienza della noia ne uscivamo comunque in qualche modo arricchiti, grazie all’assimilazione delle informazioni e degli stimoli di quell’oggetto specifico, tramite i quali arricchire la nostra visione del mondo. Oggi, invece, è tutto diverso. Sappiamo ormai molto bene come le logiche fidelizzanti dei social network funzionino, cullandoci in un flusso di stimoli pervasivi, costanti e continui, sempre nuovi ma comunque tutti uguali e standardizzati dal punto di vista visuale, in modo che la nostra attenzione sull’oggetto non si plachi mai, e anzi si rinnovi ogni volta che ricarichiamo il feed, torturando il nostro tunnel carpale.
Il paradosso in cui incappa la serie Headspace è proprio quello di criticare un meccanismo di cui in primis si serve, a partire dall’impostazione grafica, semplice e sinuosa, infantile e stilizzata, che richiama il layout di un social network e la tendenza al loop e al pattern, anche se in modo meno intrusivo. La differenza è che è l’utente a scegliere il ramo da seguire all’interno di molteplici percorsi offerti dalla serie tv, che esplorano diverse linee contenutistiche, anche al di là meditazione: si può scegliere un tutor, un contenuto, un esercizio fisico, persino una playlist per concentrarsi o rilassarsi. In fondo, Le guide di Headspace: Meditazione non è altro che una pre-selezione dei contenuti presenti nell’app, ma non per questo è meno interattiva. La scrittura della serie si basa infatti sull’inevitabile e necessario abbattimento della quarta parete: la voce narrante parla direttamente a noi che fruiamo il prodotto, rendendoci i protagonisti di una vicenda, la nostra vicenda e sceneggiando il nostro percorso mentale, fino a sparire per lasciare che sia il nostro punto di vista a imporsi sul racconto, e non viceversa.
Per questo motivo, Le guide di Headspace: Meditazione non è semplicemente un tutorial illustrato, o un ibrido tra un podcast e un cartone per bambini, ma sviluppa un linguaggio estremamente moderno che riattualizza lo schema narrativo classico del viaggio dell’eroe. Oltre all’immersione mentale dello spettatore nel ruolo del protagonista, infatti, altri archetipi animano e strutturano il racconto strutturandolo: Puddicumbe è il vecchio saggio o mentore che ci consegna i suoi strumenti e ci rende consapevoli raccontandoci il suo vissuto; ogni puntata prevede una prova o un esercizio, e quindi degli ostacoli esterni che minano la nostra concertazione, ma soprattutto quelli interni, ovvero i nostri pensieri, che si attorcigliano intorno alla nostra attenzione trascinandola verso un loop che solo se riconosciuto si disinnesca; infine, c’è un obiettivo, l’oggetto del desiderio, che corrisponde al succitato “How to” del titolo dell’episodio.
Se l’esperimento di Black Mirror: Bandersnatch induceva il pubblico a scegliere gli svincoli narrativi della storia, quello di Headspace fa dello spettatore la narrazione stessa, portandolo a indagare la propria interiorità e a riconoscere i propri pensieri come altro da sé. Il risultato dipende da ognuno di noi, ma ciò li accomuna tutti è l’orizzonte di possibilità di utilizzo di questi strumenti per i fini più diversi: la gestione della rabbia, del dolore fisico, dello stress o dell’ansia. Le guide di Headspace: Meditazione rientrano infatti in un piano di ristrutturazione del catalogo Netflix, che negli ultimi mesi sembra avere adottato una logica di funzionalità che va oltre la semplice proposta di serie tv e film, con titoli come Minimalism: a documentary about the important things o Facciamo Ordine con Marie Kondo – giusto per citarne un paio. Ma ciò che differenzia Headspace rispetto a questi prodotti, oltre al fatto di derivare da un’app, quindi da un linguaggio digitale, è il fatto di tradurre archetipi narrativi classici in un’esperienza interattiva e, di conseguenza, l’esperienza dell’eroe-spettatore in esperienza comune. Il viaggio dell’eroe è, in questo caso, puramente interiore, ma non per questo meno avvincente, aperto alle infinte possibilità dell’io.
Matteo Bonfiglioli
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