Insieme all’attesissima reunion Harry Potter 20th Anniversary: Return to Hogwarts, il primo giorno di questo nuovo anno ha accontentato la fandom di un’altra, storica saga, con l’uscita nelle sale di Matrix Resurrections. A distanza di 19 anni dal terzo capitolo, Lana Wachowski torna a dirigere Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss rispettivamente nei panni di Neo e Trinity, ruoli che li hanno consacrati a icone di fine anni ‘90. Vincitrice di quattro premi Oscar solo col primo capitolo, la trilogia di Matrix ha segnato uno spartiacque per la storia del cinema, in particolare per il genere action e fantascientifico.

All’uscita del primo fim nel 1999, a conquistare il pubblico fu l’utilizzo potenziato di un effetto che sarebbe diventato il marchio di fabbrica del franchise, il bullet time – tecnica che consente di mostrare al rallentatore un momento preciso di una scena, con un conseguente effetto di straniamento spazio-temporale per il pubblico. Tuttavia, ciò che ha reso il film delle sorelle Wachowski un cult è l’universo narrativo e allegorico che propone: un mondo in cui l’umanità è immersa inconsapevolmente in una realtà virtuale, “Matrix” appunto, che non è altro che una simulazione della realtà che reputiamo “autentica”. Progettata da sistemi compiuterizzati di intelligenza artificiale, questa dimensione permette di controllare, sfruttare e sedare gli esseri umani, costringendoli a una schiavitù che solo l’Eletto potrà spezzare. Tra temi impegnati che traggono dichiaratamente ispirazione da teorie come il mito della caverna di Platone, l’ipotesi del genio di maligno di Cartesio e i romanzi di Lewis Carroll (Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò), il capolavoro cyberpunk di Lana e Lilly Wachowski è completato da altri tre capitoli: Matrix Reloaded, Matrix Revolutions (usciti entrambi nel 2003) e, in ultimo, Matrix Resurrections.

La prima parte del film è promettente: l’introduzione dell’universo videoludico (che riprende i due videogame firmati Wachowski Enter the Matrix e The Matrix: Path of Neo), i richiami al mondo Warner Bros e alle voci su un possibile revival del franchise girate negli ultimi anni e i riferimenti alle diverse interpretazioni di cui è stata soggetta la saga costituiscono un brillante esempio di metacinema, completato da easter egg e citazionismi che soddisfano la fandom anche oltre le aspettative. Attraverso questo escamotage, Wachowski imbastisce una cinica critica al sistema hollywoodiano, ridicolizzando quel meccanismo che necessita di prequel, sequel, revival e riadattamenti di opere cult per alimentarsi e lucrare il più possibile. Matrix Resurrection sembra dunque promettere di innescare un cortocircuito narrativo metatestuale capace di restituire una lettura consapevole della nostra epoca, in linea con l’essenza stessa della saga. Se non fosse che, a circa 45 minuti dall’inizio, il film degenera in una caricatura dell’opera originale fino a diventarne la nemesi.

Tratti distintivi della saga come l’abbigliamento cyber/goth punk, la colonna sonora alternative metal e l’inconfondibile fotografia dalla patina verde lasciano spazio a macchiette di derivazione disneyana. Gli spunti narrativi sollevati, invece, finiscono in vicoli ciechi, facendo crollare la coerenza di un universo inequivocabile nella sua distopia. Allo stesso modo, le scene d’azione appaiono scariche e didascaliche, con un utilizzo pigro del bullet time e la reiterazione stanca delle stesse acrobazie iconiche dei film precedenti, senza sfruttare le potenzialità degli effetti speciali di oggi. Uno dei principali problemi di Matrix Resurrections infatti consiste proprio nel citazionismo ridondante e massivo, che non trova motivo valido di esistere se non quello di marciare sull’effetto nostalgia e che sfocia nel vacuo fanservice.

Il film non solo non ha nulla di nuovo da apportare alla storica trilogia, ma ne vanifica anche le fondamenta. Wachowski abbandona i temi impegnati, la speculazione filosofia e la ricerca psicologica per adottare un tone of voice disneyano (alla MCU e Star Wars, per intenderci) fatto di umorismo cringe e gag che demoliscono lo spirito solenne, sovversivo e adrenalinico proprio di Matrix. Il personaggio di Morpheus (interpretato da Yahya Abdul-Mateen II) è l’esempio lampante di questo processo, reso una macchietta del ruolo di mentore che lo ha consacrato ad archetipo cinematografico. In questo universo ormai in frantumi, a cui la stucchevole storia d’amore tra Neo e Trinity dà il colpo di grazia, l’unico personaggio sviluppato in modo profondo e strutturato è l’Analista (interpretato da un fantastico Neil Patrick Harris), psicologo di Thomas Anderson aka Neo, che incarna la tossicità di Matrix – frettoloso nel fornire risposte e incurante delle domande -, fornendo ancora una volta, un elemento narrativo dall’enorme potenziale speculativo ma privo di effettivi sviluppi. 

In quanto parte di un universo narrativo soggetto a coerenze e codici simbolici e stilistici precisi, Matrix Ressurections fallisce, proprio perché rinnega la sua stessa matrice e struttura. Prodotto di un sistema stantìo e reiterato, quello hollywoodiano, di cui è riflesso e sintomo ci lascia con molteplici spunti di riflessione. Come dice il personaggio di Bugs a Neo in quella che (involontariamente?) è una profezia del film: “Hanno preso la tua storia, una cosa che conta tantissimo, e l’hanno trasformata in una banalità”.

Diletta Culla