Voto

7

Dall’ideatore della già popolarissima serie tv teen Euphoria nasce “il film della pandemia”, ovvero la prima opera cinematografica a essere stata prodotta e distribuita (su Netflix) in seguito allo scoppio del Covid-19. Malcom & Marie riflette, infatti, il momento storico che stiamo vivendo non solo a livello produttivo – con cast, troupe e location ridotte all’osso -, ma anche per i dialoghi e le situazioni messe in scena: tutto succede all’interno di una cornice domestica stretta e delimitata, che amplifica lo stress delle quattro mura claustrofobiche, l’irrazionalità del pensiero che si avviluppa su se stesso quando il mondo esterno sembra quasi non esistere più. La casa di Malcolm e Marie, interpretati da John David Washington e Zendaya, diventa così microcosmo a se stante, luogo e fulcro che la macchina da presa di Sam Levinson decide di indagare, lasciando fuori il mondo esterno, che prende forma solo ed esclusivamente nelle parole tanto amare quanto violente dei due protagonisti. Un mondo e un passato, al di fuori di quelle quattro mura, che si fanno terreno di sfida e di attacco di una lite furiosa, incontrollata e incontrollabile, un loop infinito e frustrante di spietati rinfacci. I dialoghi, o meglio i monologhi, sono infatti i veri protagonisti di Malcolm & Marie: monologhi che parlano di colpe, di violenze, di un passato torbido, ma anche e soprattutto di cinema.

Levinson non si risparmia infatti da citazionismi, che prendono voce attraverso i toni nervosi di Malcolm, regista esordiente e dal carattere con tendenze narcisistiche, che si scaglia – con un’interpretazione forse un po’ sopra le righe di Washington – contro una critica incapace di comprendere la presunta profondità del suo linguaggio filmico e accusata di ricorrere solamente a vuoti cliché; quegli stessi cliché in cui tuttavia lo stesso Malcolm finisce per cadere, troppo preso dalla sua figura di artista dall’ego smisurato e mai abbastanza compreso. L’impianto estetico in bianco e nero in 35 mm riesce a restituire, attraverso studiate e precise composizioni fatte di specchi, cornici e superfici riflettenti, il sottotesto del film: l’incapacità di comprendere la persona che si ha davanti, e ancora di più di rappresentarla e metterla a fuoco in modo quanto più obiettivo e onesto possibile. Dei personaggi non conosciamo infatti nulla, se non il ritratto ambiguo che i due si costruiscono a vicenda, attraverso un ping pong di incontri e scontri che alternano amore e odio, in un susseguirsi di opposizioni e contraddizioni irrisolvibili.

Chiara Ghidelli