Voto

7

Sullo sfondo dell’affascinante Berlino degli anni ’20, perfettamente ricostruita su tutti i fronti, soprattutto quello musicale grazie alla vasta cultura che Allen, grande appassionato di jazz, ha sempre saputo mostrare – basti pensare alle colonne sonore di Io e Annie, Manhattan, Stardust memories, Radio Days, Hollywood ending, Anything Else, Midnight in Paris – si staglia una fresca e frizzante commedia. Ma – tipico di Allen – è proprio questa leggerezza, quasi esasperata, a veicolare grandi e pesanti riflessioni esistenziali, che sono poi quelle proprie del regista, che lo tormentano da sempre come uomo e come artista. Il film diviene per Allen un modo per catalizzare, concretizzandole su pellicola, le sue ansie e domande irrisolte. Lo ha sempre fatto, fin dagli esordi, ma era da qualche anno che non tornava con questa stessa insistenza e, sì, pesantezza.

Se guardate le sue prime commedie, quelle in bianco e nero in cui lui stesso recitava insieme alla moglie di turno, provate a pensare a come sarebbe stato essergli amici; io ho sempre accantonato l’idea, arrivando alla conclusione che probabilmente non l’avrei sopportato, come non ho sopportato Colin Firth – squisitamente odioso e altezzosamente snob – in questo film.

Per una serie di fortuiti eventi veniamo catapultati nelle tortuose strade delle scogliere provenzali, meravigliosamente descritte da brillanti riprese paesaggistiche. Ci immergiamo in una natura palpabile, concreta, di cui possiamo quasi sentire i profumi.
L’intreccio è un misto di romanticismo, eleganza e rocambolesco, niente di nuovo: lui, lei, l’altra, l’altro. Un quadrato amoroso che sconvolge gli equilibri sociali per crearne di nuovi e diversi.
Ritroviamo anche la magia, presente fin dal cinema delle origini di Méliès e Lumière e cara a Allen – c’era già in Stardust Memories, New York stories, Ombre e nebbia, La maledizione dello scorpione di giada, Scoop – che simboleggia quel labile confine tra realtà e illusione, razionale e irrazionale, apollineo e dionisiaco. Stanley – l’orgogliosamente scettico e intellettuale protagonista – sceglie di non credere a nulla. Dio, l’Aldilà, il sovrannaturale sono per lui – alter ego di Allen – nient’altro che infantili e fasulle sciocchezze: la vita non ha uno scopo e le sofferenze non sono finalizzare a un grande piano ideale. È insito in lui un pessimismo radicale, che lo porta a lamentarsi e brontolare costantemente, forse senza neanche sapere più il perché.
Sophie – elegante seppur di basso ceto sociale Emma Stone nei panni di una affascinante veggente – sceglie invece la magia: limitarsi a credere fermamente solo nella dignità dell’uomo non è sufficiente. Ognuno di noi deve capire che gli serve una ragione per abbracciare la vita e sono proprio le speranze, anche se illusorie, a dare senso e vitalità alla nostra esistenza. È lei stessa a fornirne, forse non nel migliore né nel più onesto dei modi, ma con un fondo di ingenuità e di buone intenzioni: inganna per addolcire l’amara pillola della vita e donare conforto a chi, con eccesso di ottimismo che raggiunge punte grottesche e ridicole, è disposto ad aggrapparsi a qualsiasi cosa.

Queste due visioni si sconteranno per poi incontrarsi, permettendo a Stanley di essere felice veramente – almeno per qualche giorno. Ha fatto entrare le menzogne nella sua vita, disponibile ora ad accogliere ciò che sta oltre il fenomenico e ad aprirsi alla gioia di vivere, godendosi tutto quello che – fiero e altezzoso verso l’altrui credo – si era perso.
Un Woody Allen quasi 80enne ancora pieno di vigore vuole così ribadire ciò che ha sempre cercato di dirci, ricordandoci, tramite le parole di Zia Vanessa – una raffinata Eileen Atkins – che il mondo può anche essere privo di uno scopo, ma non è privo di una certa magia.

Benedetta Pini