Ci sono narrazioni che si insinuano nell’immaginario collettivo e vi permangono per decenni, contribuendo alla costruzione di un background culturale, sociale e identitario condiviso che riflette il potere esercitato secolarmente da miti, favole e storie sulla mente umana; un bagaglio che influenza ciò che viene generalmente considerato giusto o sbagliato, morale o immorale. Il mago di Oz è proprio quel tipo di storia: otto generazioni americane sono cresciute guardando questo film, a partire dall’epoca in cui i film venivano riproposti ciclicamente in televisione, prima che fosse possibile scegliere tra l’attuale immensità di canali, dispositivi e piattaforme. Lynch/ Oz (film in sala dal 15 al 17 maggio per Wanted Cinema) è un affascinante documentario che ripercorre la storia del cinema americano attraverso sei capitoli, suggerendo differenti chiavi di analisi di una pellicola ormai considerata una pietra miliare della produzione statunitense.
Il mago di Oz è infatti la quintessenza del modello del film americano: una storia fantastica che vede al centro una giovane ragazza del Kansas rurale che intraprende un viaggio avventuroso a lieto fine, affrontando ostacoli imprevedibili e incontrando bizzarri compagni di viaggio. La meta agognata è il ritorno a casa (la retorica di “Home sweet home”), che riuscirà a raggiungere solo dopo aver superato diverse sfide, necessarie a scoprire se stessa e a maturare consapevolezza di sé. Una struttura piuttosto lineare, che si fonda su due topoi cruciali per i pattern narrativi statunitensi: l’immedesimazione in un character giovane e innocente che si avventura in un mondo fantastico e sconosciuto, fuori dai confini della propria comfort zone, e il ritorno a casa come luogo sicuro. Tematiche ricorrenti nei più grandi film cult americani, come Ritorno al futuro (1985), in cui Marty viaggia nel tempo per compiere una missione e per poi desiderare disperatamente di tornare al presente, o Matrix (1999), che inscena uno dei più memorabili viaggi tra mondi alla ricerca del proprio luogo di appartenenza. Il viaggio di Dorothy alla scoperta di un nuovo mondo, e in ultimo di se stessa, si fa così emblema dell’illusorio sogno americano: non importa chi tu sia, se lavori e ti impegni riuscirai a realizzare tutti i tuoi sogni.
Se Il mago di Oz ha influenzato gran parte dei prodotti dell’industria cinematografica statunitense, ha in particolar modo inciso sull’immaginario di David Lynch, le cui opere sembrano essere nate per e sotto l’influsso di questo film e del suo simbolismo incantato, immediato, preverbale. Prendiamo ad esempio le scarpette rosse di Dorothy, che nei film di Lynch diventano lo strumento per caratterizzare e riconoscere i personaggi occulti o sovrannaturali; o il vento, che porta Dorothy in un nuovo mondo e soffia nei film di Lynch per segnalare l’ingresso all’interno di altre dimensioni del reale o sottolineare l’instabilità del destino; o, ancora, le tende dietro a cui si nasconde Il mago di Oz sono il portare che separa i mondi in Blue Velvet (1986), Twin Peaks (1990) e Mulholland Drive (2001) – film in cui troviamo il misterioso “man behind the curtain”. Le suggestive associazioni instillate nell’immaginario collettivo da Il mago di Oz sono infatti talmente potenti da perdurare anche nella fruizione delle opere lynchiane, senza bisogno di dichiarazioni o spiegazioni che, per altro, il regista di Missoula non è mai stato intenzionato a svelare. Lynch parla già la stessa lingua del pubblico, condividendone lo stesso background.

Se in Cuore selvaggio (1990) i riferimenti e le citazioni a Il mago di Oz affollano le battute dei personaggi, Mulholland Drive è il film che in cui Il mago di Oz assurge a Bibbia lynchiana. La struttura narrativa è la stessa, ma capovolta: come Dorothy, Diane è una giovane ragazza innocente e a tratti ingenua, che scopre una nuova realtà e con la forza della determinazione si fa strada per realizzare i suoi sogni. Diane è avventurosa e affronta tutti gli ostacoli e i misteri che si interpongono nel suo cammino, muovendosi con la curiosità di una bambina desiderosa di scoprire il mondo. Anche lei, poi, tornerà nel mondo da cui è partita, passando attraverso uno spettro di mondi e piani della realtà in pieno stile lynchiano. I personaggi misteriosi e i lip sync che hanno reso celebre Somewhere over the Rainbow ne Il mago di Oz tornano con Llorando in Mulholland Drive, dimostrando lo sconfinato amore di Lynch per il suo (ora possiamo dirlo) film preferito.
Se l’arte imita la natura, la storia di questo film è allo stesso tempo imitazione e riflesso del periodo storico a cui appartiene. La Golden Age di Hollywood (databile all’incirca dagli anni ‘20 ai primi anni ‘60 del Novecento), un’epoca ricordata per le memorabili produzioni cinematografiche, la strutturazione dello studio system e la nascita di stelle come Audrey Hepburn, Marilyn Monroe e James Dean – per citarne alcuni -, è considerata un paradiso perduto, ma forse non è mai realmente esistito. Ancora oggi vista nell’ottica di una narrazione romantizzante del passato, che guarda a quell’epoca con occhi sognanti, nostalgici ed estremamente naive, l’epoca d’oro hollywoodiana è infatti il modella del claim “M.A.G.A. – Make America Great Again” della campagna elettorale di Trump del 2016, in riferimento a una mitizzata e illusoria storia statunitense. Nella sua essenza, Il mago di Oz rappresenta proprio questo: l’idea di un passato idilliaco e idealizzato, vestito dell’innocenza del sogno americano e del confortante ritorno a casa per nascondere le macchie di violenza, razzismo e turbocapitalismo.
Una dualità chiaroscurale che richiama il concetto, caro anche a Lynch, del doppelgänger: all’ombra dello splendore della prosperità dell’industria cinematografica, delle nuove politiche del New Deal (1933) e di un periodo di espansione urbanistica, di implemento delle infrastrutture e di crescita economica si nasconde un lato molto meno dorato, in cui coloro che stavano davvero bene erano in realtà pochissimi privilegiati. Nel doppelgänger oscuro del sogno americano la segregazione razziale è ancora in atto, la discriminazione sociale e politica sono endemiche e domina una struttura eterocis patriarcale istituzionalizzata. L’idea stessa di romanticizzare quel passato stride, come quella di idealizzare Il mago di Oz. Il doppelgänger del film, in contrapposizione al mondo fatato e naive che rappresenta, risiede nelle tragiche condizioni lavorative del cast e nelle verità che traspaiono dalle leggende attorno al film, come gli orari di lavoro interminabili, i costumi incredibilmente scomodi e i salari non adeguati. La stessa Judy Garland, nei panni della spensierata Dorothy, racconta di essere stata sottoposta a una dieta ferrea e a un trattamento a base di anfetamine per controllare il peso ed essere abbastanza resistente da rispondere alle necessità sfiancanti del set, avviandosi verso una vita segnata da dipendenze e depressione.
Matilde Soleri
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