Non è la prima volta che Godard ci sorprende ‒ a Cannes 2018 tenne una conferenza stampa per il suo ultimo film in collegamento FaceTime dalla sua casa svizzera e per fargli le domande i giornalisti dovevano avvicinarsi a un telefono ‒, e questa volta lo fa via Instagram, dalla stessa casa dove si è ritirato da diversi anni. Con l’iPhone in mano usato come specchio e un sigaro in bocca, Godard si sistema i capelli e si prepara alla diretta: questa è la prima immagine che vediamo del maestro della Nouvelle Vague sulla soglia dei novant’anni. Si tratta di un dialogo di oltre 90 minuti insieme a Lionel Baier, direttore del dipartimento di cinema dell’Ecal di Losanna; uno scambio che si rivela complesso e disorientante, come è del resto lo stesso Godard. Alle domande il cineasta preferisce non dare risposte lineari, risposte che vorremmo da un grande maestro del cinema.  

Si parla di televisione e informazione – “vedo le notizie una o due volte al giorno, è sufficiente”, afferma –, e poi viene paragonato il virus che stiamo affrontando a una modalità di comunicazione, che in quanto tale si diffonde attraverso una condizione di reciprocità: il virus, come l’informazione, necessita dell’altro per entrare nelle case di ogni persona. Presto si arriva a parlare di quella ricerca sul linguaggio che accompagnava il giovane Godard, raccontando di come smise di parlare per un anno dopo aver letto Recherches sur la nature et les fonctions du langage di Parain, per poi riflettere sui suoi ultimi lavori, Adieu au Langage (2014) e Le livre d’image (2018), quest’ultimo descritto come un collage sperimentale e pirotecnico, un vortice visuale fatto di immagini da ricomporre, suggestioni, voci e suoni, in cui la funzione narrativa della parola è abbandonata. In questo dialogo emerge infatti ripetutamente il rifiuto di intendere la parola come unico medium portatore di senso e rappresentante della realtà, auspicando il ritorno a un alfabeto pittorico. “Non credo più nel discorso; ci sono troppe lettere, dovremmo eliminarne e passare a qualcos’altro, come i pittori. La parola non è in grado di restituirci la complessità dei fenomeni, la vera condizione dell’uomo è pensare con le mani” afferma.

Il cinema secondo Godard è un esercizio di archeologia, bisogna scavare nella memoria per trovare e immaginare, a volte, un movimento della macchina fotografica, un piano che non c’era. Questo è il concetto che vediamo concretizzarsi con Le livre d’image. Lo spettatore è così invitato a disfare e ricomporre i pezzi per comporre il proprio film, perché in fondo, come dice Godard citando Bresson, “Il cinema consiste nel mettere insieme cose che a priori non hanno nulla a che fare con esso”. Il cinema non è riservato a una minoranza e non va insegnato nelle Università –  “restate a casa” aggiunge scherzosamente.

Tornando con la memoria agli anni della Nouvelle Vague, ammette che gli mancano molto: “Con Truffaut, Rivette non parlavamo della vita personale, andavamo molto al cinema. Rivette poteva vedere lo stesso film cinque volte, io guardavo cinque film al giorno, erano due modi di vedere i film. Eravamo comunque una banda, anche con Chabrol”. E non manca di precisare che la loro politica degli autori “fu una risposta alle società di produzione, che pensavano che come c’erano autori per libri, c’erano autori per film e che fossero gli sceneggiatori. E abbiamo detto no, l’autore è il regista, che sia un buon regista o meno”. Infine parla anche di un prossimo progetto, in cui immagina che a dirigere la Bastille Opera sia la regina di Saba, con la musica di Bizet e brani originali. Non sappiamo come immaginarcelo, ma sappiamo già che ne saremo sorpresi, ancora una volta.

Carola Visca