Lars von Trier nasce nel 1956 in Danimarca. Da quel momento per lui inizia un percorso di vita ben poco ordinario e che potrebbe essere affine a un’agiografia, in quanto a sofferenza. Un travaglio che è onnipresente nell’opera del regista, incarnato anche dai protagonisti e dai soggetti dei suoi film, in un’alternanza calibrata di sadismo e masochismo. Ne è impregnata anche la storia di riscatto e martirio de Le onde del destino, uscito nelle sale italiane l’11 ottobre 1996; film che catapulta il regista danese in quel settore che potremmo definire mainstream, trasformandolo in un vero e proprio artista di culto.

La Danimarca degli anni ’60 secondo Lars non può che essere filtrata dagli ideali dei suoi genitori, che sono comunisti, atei, nudisti, promiscui, non credono nei metodi educativo-pedagogici convenzionali e che, fin da piccolo, lo lasciano totalmente libero di fare qualsiasi cosa gli passi per la testa. A 13 anni, però, arriva un radicale cambio di rotta: i genitori iscrivono Lars in un collegio severissimo e dai metodi autoritari e coercitivi, dove resiste soltanto due anni prima di scappare. Dopo di ciò, Lars sembra attraversare l’adolescenza senza troppi problemi – chi ha paura degli ormoni quando è sopravvissuto sia a degli hippie che alle suore?

Nel frattempo, la madre si ammala gravemente, e Lars decide di accompagnarla negli ultimi mesi di vita. La donna gli rivela che suo padre non è davvero suo padre, aggiungendo di aver programmato la gravidanza perché voleva che il suo bambino avesse dei geni artistici nel DNA e quindi rimanendo deliberatamente incinta di un uomo appartenente ad una illustre famiglia di compositori musicali. Lars seppellisce la madre e poi prova a contattare il padre biologico, che gli risponderà esclusivamente tramite lettere e diffide degli avvocati. Non conosco la parola danese per “poraccio” ma in qualsiasi lingua non dev’essere bello se ad indirizzartela è il tuo stesso padre.

Nel 1976, a 20 anni, Lars scrive un articolo sul drammaturgo Strindberg (anche lui epitome della tranquillità mentale) e decide di firmarsi per la prima volta usando il “von”. A suo dire, lo fa perché in quel periodo era “vittima di un’enorme auto-venerazione”, ma sembra un tentativo disperato di aggrapparsi all’egomania per sopravvivere a una vita costellata di traumi che minano nel profondo ogni briciolo della sua sicurezza. Ipocondriaco, collezionista di fobie e nevrosi, non ha mai preso un aereo e anche per raggiungere le location dei suoi film usa esclusivamente auto o treni, costringendosi a viaggi lunghi anche settimane. Si consola e stordisce con una regolare quantità di psicofarmaci e bottiglie di vodka – ogni giorno, per anni – entrando e uscendo da svariati centri di rehab, nonché dai Festival cinematografici, dove ora viene incensato come genio, ora bannato come “persona non gradita”.

L’ossessione nei confronti delle figure femminili, della lotta – spesso violenta – tra i sessi e l’approccio voyeuristico sul sesso innervano tanto la vita di von Trier quanto quella dei personaggi dei suoi film. Le onde del destino racconta proprio di quei traumi mai rinsaldati nei confronti della Madre, il Padre (e Dio), lo straniero, la propria e l’altrui sessualità. Nel film la protagonista è una donna, Bess, che non vuole essere definita “stupida” perché è da tutta la vita che le viene ripetuto di esserlo. La sua vocazione al martirio passa prima dalla Chiesa, poi dalla famiglia e trova compimento nel matrimonio. Già nelle prime scene abbiamo un’epifania su quale sarà il destino di Bess: il suo candido vestito da sposa si imbratta di sangue subito dopo aver perso la verginità. In un susseguirsi lento quanto inesorabile di sfaldamenti, si compie il castigo ricercato e autoinflitto di Bess, costretta a prostituirsi per liberarsi dal bigottismo e a rinunciare al proprio corpo per salvare quello del marito. Non esistono mezze misure per chi è troppo buono, troppo ingenuo, per chi non ha mai compiuto il passaggio dall’infanzia alla vita adulta, e i comportamenti di Bess vengono etichettati come pazzia.

Le onde del destino allude a un’incessante rimescolanza viscosa tra piacere e godimento, privazione e violenza. L’anarchia e il dissapore che vanno di pari passo con l’ordine precostituito e la morale comune. Il limite di ogni opera autobiografica è spesso quello di autoassolversi, ma non è questo il caso: nei film di Lars, le sue Doppelgänger al femminile virano sempre verso l’autosabotaggio, proprio come quelli al maschile – vedi La casa di Jack. Ma se è vero che quest’antologia di punizioni esemplari si adagia con troppa comodità su una misoginia piuttosto palese – e di cui viene accusato ormai da anni, specialmente a Hollywood – ne Le onde del destino, è ancora sopportabile, diluita con quel pizzico di purezza e con quell’aria svampita che traspare da un’intensissima Emily Watson. A metà tra una narrazione dolce e fiabesca e un’amara condanna, il percorso fino al Golgota compiuto da Bess non può che rimandare ad alcune delle vicende biografiche di Lars, ricordandoci che non c’è santità senza martirio.

Alice Firriolo