Adam e Charles, due fratelli nati da madri diverse di cui una (quella di Adam) morta suicida, discutono a tavola del padre appena scomparso. Sono adulti e intenerisce il fatto che non riescano a sciogliere l’enigma sul mistero dell’amore che si riceve. Tocca dare ragione agli psicoanalisti: essere stati amati o non essere stati amati, questo è il dilemma lacerante che ognuno di noi porta iscritto nelle radici del proprio soffrire, ed estirparlo è impossibile. Il tavolo, anche freudianamente, rappresenta il focolare, la famiglia. Alzarsi e andarsene è un atto di ribellione illusoria. Quei due fratelli, invischiati nella competizione originaria, ameranno la stessa donna: la spregiudicata, forastica, ferita Cathy Ames. Adam la sposa ma lei partorisce due gemelli maschi dopo essersi unita sessualmente a Charles in una notte stregata. I due bambini, Aaron e Caleb, saranno destinati a ripetere lo schema.

Epica della famiglia più che della ricerca di un paradiso terrestre, La Valle dell’Eden di Steinbeck ragiona su bene e male, tragedia e commedia, amaro e dolce, peccato e santità e rilegge il dettato biblico per stupirsi dell’umano e della monumentalità dell’esperienza, che la scrittura (intesa come atto creativo-costruttivo) cerca di afferrare e di fissare in eterno. L’opera teatrale di Antonio Latella, che riduce quel romanzo (rimpicciolendolo, o forse allargandolo nei suoi riverberi) allo spazio di un palcoscenico, si chiude metaletterariamente con l’allestimento di una vera e propria casa, costruita sulla scena pezzo dopo pezzo, metafora di quel che fa la letteratura: creare un edificio, un prodigio architettonico che tiene insieme le contraddizioni frammentarie dell’esistenza. Il regista mette a confronto coraggiosamente la perfezione della forma romanzo con l’imperfezione della rappresentazione teatrale; un’imperfezione connaturata al genere e alla sua precarietà, che si percepisce alla fine della performance, quando gli attori (tutti più che straordinari) cedono qualcosa al tempo, cessando di nascondere la stanchezza e lasciandosi in qualche modo logorare dalla durata della pièce.

La Valle dell’Eden, spettacolo prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio di Prato e Teatro Stabile dell’Umbria, è un dramma colossale, un dramma-monstre della durata di quasi cinque ore in quattro atti da un’ora e dieci ciascuno. La scelta di sfidare il pubblico alla pazienza suggerisce letture iconoclaste: è un’insubordinazione allo spirito del tempo, così vorace nel consumare tutto subito? Ma è soprattutto un atto dovuto al grande romanzo di Steinbeck, alla volontà di non sciuparlo, di restituirlo nella sua perfetta complessità. Allo spettatore resta tuttavia un dubbio, che non compromette l’impressione generale ma si insinua e pungola: qual è il rapporto fra testo scritto e testo performato, tra narrazione e rappresentazione, tra diegesi e mimesi? Quali sono, infine, i termini della necessaria negoziazione fra i due linguaggi? L’interrogarsi su romanzo e teatro come strutture (di nuovo, sull’edificio in senso letterale e allegorico) è il sovrappiù dello spettacolo, il suo scarto più sofisticato, che nulla toglie ma anzi aggiunge spessore alla già corposa messinscena, la cui densità di implicazioni deve solo strabiliare, mai spaventare.

Carolina Iacucci