Voto

8

In un periodo dominato dai film d’animazione kolossal (vedi Pixar), La tartaruga rossa spicca per il coraggio di una tecnica raffinata e delicata, unita a una narrazione essenziale dalle tinte poetiche.

Una favola di sole immagini, in totale assenza di dialoghi, che vede il protagonista – un uomo naufragato su un’isola deserta i cui tentativi di tornare alla civiltà falliscono ripetutamente – alle prese con la riscoperta dei propri ritmi in armonia con quelli della natura, scanditi all’unisono secondo il ciclo perpetuo delle stagioni e dell’esistenza (nascita/primavera, crescita/estate riproduzione e invecchiamento/autunno, morte/inverno). 

Coprodotto dallo Studio Ghibli e dalla casa francese Wild Bunch, La tartaruga rossa è il frutto di un’abilità tecnica sorprendente, che ha unito tavole a mano a carboncino e penna grafica (Cintiq) per restituire la fluidità dei movimenti ma anche la pastosità delle ambientazioni. A sostituzione dei dialoghi, una colonna sonora che è il respiro del film, che segue la gestualità dei personaggi e le situazioni in cui si trovano chiarendone il senso o, al contrario, avvolgendo il film con un alone di fascino misterioso non sempre immediatamente comprensibile.

Emozionante, commovente, a tratti onirico e crudo nella sua autentica violenza, il gioiellino di Michaël Dudok de Wit si apre a diverse interpretazioni, ma il cuore del film è un invito a riscoprire la propria essenza di esseri umani e assecondare senza vergogna le proprie esigenze innate, sia materiali che spirituali, che prima di tutto sono relazionali e sociali (vedi Aristotele).  

Benedetta Pini