Come Federico Fellini, il regista che ha saputo calare la poesia nel cinema e trovare la verità dietro alla bugia di una finzione necessaria, Paolo Sorrentino, che al maestro riminese deve la scintilla primaria del suo cinema, rivendica il proprio status di autore e prende distanza dai mestieranti, definendo i confini di quell'”universo poetico autonomo e autosufficiente” che è la condicio sine qua non della sua opera. Questa è solo una delle tante considerazioni che il regista napoletano affida al documentario di Sandra Marti ed Emmanuel Barnault (in coproduzione francese), trasmesso da Sky Cinema 2 nella prima serata del 7 gennaio e disponibile sulla piattaforma Sky Go: Il mondo di Sorrentino. Oltre alle riflessioni del protagonista, compaiono anche quelle del suo direttore della fotografia Luca Bigazzi, del montatore Cristiano Travaglioli, del suo produttore Nicola Giuliano e del suo attore-feticcio – o, per meglio dire, del suo ‘co-autore’ – Toni Servillo. 

A emergere è l’irriducibilità del suo immaginario, di un discorso iconografico che sa tradurre l’astratto di un sentimento impalpabile o di un concetto, persino di un tratto antropologico, in simbolo, in legame fra senso e sovrasenso. Dalla sua auto narrazione e dal ritratto che restituiscono i suoi collaboratori emerge il Sorrentino privato, timido, misantropo e non particolarmente loquace, ma si tratta di un’operazione che rifugge rigorosamente l’anedottica, la retorica, la lusinga, l’agiografia. “La bellezza del set è non sapere cosa accade”, dice a un certo punto Sorrentino, mentre ribadisce che non ama provare molto con gli attori e detesta la rilassatezza che si raggiunge quando si ha tutto sotto controllo. Perché la verità del film è non sapere niente prima, è non pensare troppo, è fare anziché speculare. “Dei film”, aggiunge, “si possono avere molte idee teoriche, ma il film si costruisce inquadratura per inquadratura e niente può essere stabilito a monte. Dalle situazioni scomode si può imparare qualcosa, solo nella scomodità si trova la soluzione”. 

Sperimentatore dal set alla fase di montaggio, Sorrentino non nasconde di avere un approccio invadente nei confronti dei collaboratori; il sodalizio con Bigazzi, il direttore della fotografia, si fonda proprio sulla stima reciproca e la trasparenza di quest’ultimo, consapevole di dover sempre stare un passo indietro rispetto al regista. Con Servillo, invece, c’è un’amicizia basata sulla fiducia più totale: “la distanza tiene viva l’alchimia, la distanza accende la fantasia, mantiene l’eccitazione”. L’intesa tra i due è tutta fondata sulla versatilità di Servillo, che pur rientra nella cifra stilistica immediatamente riconoscibile di Sorrentino, e il talento dell’attore nel raccontare attraverso la sintesi gli Italiani, nel disvelare con un lampo visivo o una battuta fulminante la realtà occulta del Paese: “Con l’ironia sa riportare le cose della vita nell’alveo dell’imprevedibilità”, spiega il regista.

È un privilegio poter continuare a giocare anche da adulti, ed è concesso solo agli uomini di spettacolo; il gioco inteso come elemento ludico dell’esistenza, come esigenza di infondere fantasia e ribellione nel corso monotono della vita. Tra le fonti d’ispirazione di Sorrentino c’è infatti, non a caso, quel Diego Armando Maradona che il regista ringraziò alla cerimonia degli Oscar e che in Youth – La giovinezza ha rappresentato nella singolare e umanissima coincidenza fra decadenza fisica e residuo di grandezza, con quel granello inestinguibile di talento ancora intatto, di chi ha saputo fare del talento un varco verso la libertà.

Carolina Iacucci