[…]Io sono il nulla, io sono il vuoto […]
Io sono il mai, Io sono il senza
Io sono l’inesistenza
(Giorgio Canali & Rossofuoco – Quello della foto)

Giorgio Canali riassume nella testo di Quello della foto uno dei temi principali dei film di Michelangelo Antonioni e di Marco Ferreri: il nichilismo dell’uomo contemporaneo, fil rouge della rassegna organizzata dallo Spazio Oberdan “Il Cinema della Modernità: Michelangelo Antonioni e Marco Ferreri” dal 7 al 26 gennaioAntonioni e Ferreri passarono alla storia del cinema nel ruolo di capofila di una schiera di artisti molto attenti agli sviluppi della contemporaneità e della cultura borghese, spesso criticandola. Allo stesso filone appartengono Luis Buñuel – tra i maestri di Ferreri –, Pasolini (Teorema, 1968) o Ingmar Bergman (Sussurri e Grida, 1972).

Nietzsche nello Zarathustra affermava che la civiltà occidentale stava andando nella direzione dell’Ultimo Uomo, apatico, senza passioni, senza impegni, incapace di sognare e stanco della vita. Una figura di questo tipo è chiaramente riscontrabile nei personaggi interpretati da Monica Vitti nella trilogia esistenziale (L’Avventura, La Notte, L’Eclisse) e in Deserto Rosso di Antonioni. L’attrice romana è proprio tra le migliori esponenti del cosiddetto “nichilismo passivo”, un annullamento di sé nella totale mancanza di azione. A sottolineare l’assoluta staticità emotiva dei personaggi contribuisce la regia di Antonioni: non una narrazione in stile “cappa e spada”, quindi, bensì una pedante fenomenologia sentimentale dei personaggi unita a una descrizione degli ambienti che amplifica l’assenza di movimento. A questo proposito, la sequenza finale de L’Eclisse (1962), una delle più famose del cinema italiano, è emblematica: mostra la periferia romana, caratterizzata da geometrie fredde e statiche – da molti è stata avvicinata ai quadri metafisici di De Chirico –, mentre i personaggi che passano davanti alla macchina da presa sono per lo più soli, cambiano strada, non sembrano essere sicuri della loro meta.

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Tuttavia, l’analisi esistenziale che emerge è piuttosto parziale, in quanto si limita ad affrontare il mondo della borghesia, scelta probabilmente dettata dalla stessa appartenenza sociale di Antonioni, che lo portava a conoscere meglio e più da vicino quell’ambiente. Nei suoi film, infatti, non si trovano personaggi umili, ma quasi solo borghesi ritratti nei loro vuoti divertimenti – come la gita in barca de L’Avventura (1960) o la festa de La Notte (1961) – e nella loro perdita di punti di riferimento. Il regista, inoltre, rifiuta di concedere a questo “mondo” perfino un sincero rapporto amoroso – Giuliana (Monica Vitti), ad esempio, non trova sollievo alla sua solitudine nemmeno in Corrado (Richard Harris) in Deserto Rosso.

In Ferreri questa stessa analisi della crisi dei valori borghesi si fa spietata e violenta. È il caso, ad esempio, di La Grande Abbuffata (1973), uno dei film più controversi della storia del cinema e precursore di Salò o le 120 Giornate di Sodoma di Pasolini che vide in Ferreri un maestro. Nella pellicola si narra di quattro borghesi, che rappresentano i cardini della cultura borghese (Giustizia, Cucina, Avventura, Arte, rispettivamente Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Michel Piccoli), i quali tentano di suicidarsi mangiando fino a scoppiare, suscitando un forte disgusto nello spettatore. Tra una scena vomitevole e un’altra risiede un’esplicita critica alla società dei consumi e una “condanna a morte” di una classe, la borghesia, addormentata e dedita esclusivamente alle più deleterie abitudini.

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Quel disagio esistenziale che avevamo visto in Antonioni può essere trovato anche in Ferreri, il quale, a differenza del primo, inserisce la possibilità di una fuga, benché si tratti di tentativi destinati a fallire. La Cagna (1972) e Dillinger è morto (1969) sono eclatanti da questo punto di vista. Il primo rappresenta il tramonto della figura dell’intellettuale solitario, fuggito dalla società organizzata, regolata dai ritmi della produzione e non della vita; ma nemmeno nell’isola sperduta – topos letterario della solitudine e della wilderness sconfinata – troverà la libertà sperata, tutt’altro: il narcisismo della creatività artistica si rivelerà essere un’altra prigione. In Dillinger è morto la fuga diviene ancora più violenta: Piccoli crede di poter scappare dalla vita quotidiana, dalla superficialità della televisione, dalla ritualità senza significato solo con l’omicidio della moglie.

Nel film Storie di Ordinaria Follia (1981) sembra che l’amore possa diventare uno strumento di opposizione al degrado e all’infelicità contemporanea, ma si riduce a un sollievo temporaneo senza il quale non vi è che l’autodistruzione, simboleggiata dalla tragica mutilazione del proprio sesso da parte di Cass (Ornella Muti).

L’uomo contemporaneo raccontato da Antonioni e Ferreri è, dunque, un uomo turbato, fuori posto, incapace di vivere in un mondo definito dai ritmi della produzione capitalistica e dalla tecnologia che, come hanno mostrato gli esistenzialisti – e Ferreri è stato un lettore di Sartre, in particolare di Essere e Nulla –, hanno privato l’esistenza di tutti quegli elementi di imprevedibilità e spontaneità di cui l’uomo ha sostanzialmente bisogno.
Questi due giganti del cinema, così, hanno fornito la versione “alta” di quell’alienazione comicamente rappresentata da Charlie Chaplin in Tempi Moderni. L’uomo contemporaneo è, suo malgrado, inserito nella catena di produzione come un bullone o un tapis roulant, e quando saltuariamente ne esce viene aggredito da un tremendo senso di horror vacui, incapace di affrontare problematiche che esulino dalla produzione di ricchezza o, peggio, arrivando a crearsene di veramente inutili. Così, in Break Up, Ferreri mostra che quando un ingegnere esce dal luogo di lavoro non può che impazzire nel disperato tentativo di rispondere a una domanda assolutamente inutile: “Dopo quante boccate scoppia un palloncino?”.

Luca Paterlini