Già cantante e musicista nel progetto Vanarin, David Paysden è un artista inglese nato a Manchester e vissuto a Bergamo. La passione per i dischi anni Settanta e il cinema d’autore si sono incontrati con la sua personalità eccentrica per il progetto solista Dave Tendo. Dopo aver rilasciato due singoli (Summer Rain, Imsorry) nel corso del 2019, ecco finalmente il primo, corposo lavoro dell’artista: Touch The World uscito per Instant Records, il collettivo artistico da lui stesso fondato –, un EP di quattro tracce e un cortometraggio interamente auto-prodotto; una scelta coraggiosa e decisamente fuori dagli schemi del mercato discografico attuale. Tra simmetrie alla Wes Anderson, reminiscenze di Lewis Carroll, atmosfere oniriche e sonorità vicine al neo-soul e al R&B, l’EP è il miglior biglietto da visita del progetto. Così, abbiamo fatto due chiacchiere direttamente con Paysden, per farci raccontare da lui stesso dell’idea di Dave Tendo, dei dischi che ha ascoltato mentre scriveva l’album e delle sue passioni.

L’EP d’esordio Touch The World inizia con una una voce fuori campo che legge un passo di Alice in Wonderland in cui la protagonista apre la porta del mondo incantato. È una metafora del significato di questo lavoro?
Sì, l’idea di fondo è proprio quella. Alice in Wonderland è uno dei miei libri preferiti: mi piace il concetto di non-sense che lo caratterizza, e che permea buona parte della letteratura inglese. L’idea di entrare in un mondo che non conosci e che non capirai subito mi è sembrata la metafora ideale per descrivere questo lavoro. Tutto ciò che è nuovo genera curiosità ed eccitazione, ma anche paura e preoccupazione; e volevo che l’apertura di Touch The World trasmettesse questa sensazione, quasi come se stesse decollando un aereo: tutto il mondo che conosci viene “schiacciato”, e inizia un viaggio nuovo in un mondo nuovo.

She tried the little golden key in the lock, and to her great delight it fitted”. Questo verso rimanda alla piccola chiave presente nel cortometraggio Touch The World che accompagna l’EP. Che significato c’è dietro a questo parallelismo?
I due concetti sono molto simili, ma non sovrapponibili. Nel cortometraggio la chiave simboleggia la mancanza di qualcosa che non sapevi ti mancasse, ma di cui realizzi il valore nel momento in cui la ritrovi. Quando subiamo dei traumi grossi, infatti, cerchiamo di rimuoverli; allo stesso modo il personaggio sente di non essere pronto ad affrontare quel dolore, e inizialmente si rifiuta di usare la chiave per aprire il vaso di Pandora della sua interiorità. Nella canzone, invece, l’idea della chiave rimanda proprio all’apertura alla novità, al decollo di cui parlavo prima, con tutte le sensazioni che si porta dietro. Questo concetto si applica anche alla figura dell’artista: aprirsi al mondo tramite la propria musica spesso provoca paura e ansia nei confronti dell’accettazione da parte degli altri. È per questo che ferisce così tanto il mancato apprezzamento del proprio lavoro. Mi ricorda un po’ la dimensione delle casalinghe: passano tutto il tempo a rendere la propria casa pulita e splendente, ma quando arriva un ospite nuovo c’è sempre un pizzico di timore che non la apprezzi. La paura di non essere accettati è davvero comune a tutti, non importa quanto si provi a nasconderla.

Per non rischiare, allora, è necessario assicurarsi che tutto sia al proprio posto, che tutto funzioni, giusto?
Solo in parte, secondo me. In un certo senso, mi sento a metà strada tra gli addetti ai lavori, tra chi sa cosa serve a una canzone perché “funzioni”, e chi invece la approccia senza preconcetti o sovrastrutture. Insomma, capisco che il mondo della musica è anche un mercato, ma questo non significa vendersi solo in virtù della moda. In definitiva, la strada giusta è quella che senti più affine a te, tantissimi artisti sono andati avanti a testa bassa per la propria strada e sono riusciti a costruire qualcosa di importante, magari anche a cambiare i meccanismi del settore. Basta pensare, in anni recenti, a Mac Demarco e Tame Impala. Il punto è trovare la propria dimensione, in equilibrio tra quello che le persone si aspettano da te e quello che tu vuoi comunicare, mantenendo la tua autonomia artistica.

Ciascuna delle quattro tracce dell’EP è riconducibile a un genere diverso: le influenze black di Obsessed, l’onirica Touch The World, perfino il rap in Jealousy. Sono però tutte unite da un fil rouge moderno: qual è l’idea alla base della produzione?
Il mio desiderio più grande per questo EP era di riuscire finalmente a creare qualcosa di completo, qualcosa che creasse davvero un mondo nuovo. Per questo ho cercato di condensare al massimo i tempi: nel giro di un mese ho registrato, mixato e masterizzato tutto, non volevo che il lavoro si disperdesse. Una delle influenze più significative per tutti i brani è stato l’ultimo album di Tyler, The Creator, IGOR: è uscito proprio nel periodo in cui stavo scrivendo e mi ha davvero colpito, forse più di Flower Boy. Sinceramente, non saprei ricostruire e analizzare con lucidità l’intero processo produttivo, ma alla base di tutto c’era il desiderio di iniziare a delineare più nettamente il sound di Dave Tendo, come base per i lavori futuri.

Hai parlato di Tyler, The Creator. Ci sono altri artisti che indicheresti come punti di riferimento per questo lavoro?
Non sempre gli artisti che ascolti maggiormente sono poi quelli che ti lasciano un segno. Da quando ho sentito Wolf (2013) sono rimasto folgorato dal suo talento, dal suo approccio infantile e dalla sua estetica borderline, caratterizzata da un uso molto maturo dei colori. Steve Lacy, soprattutto nell’EP Steve Lacy’s Demo (2017), mi aveva stupito per il sound originale e la creatività della sua scrittura, e poi Isolation (2018) di Kali Uchis, e ancora Blood Orange e tanti altri. In generale, tutto il movimento di R&B neo-soul moderno che sta scoppiando negli Stati Uniti mi ispira molto. Rimanendo in Italia, direi che le interpretazioni del genere sono validissime, quelle di Giorgio Poi e di Colombre su tutte. Durante la scrittura dell’EP ero particolarmente invasato di funk anni Settanta: George Benson di Livin’ Inside Your Love, ma anche l’Archie Shepp di Attica Blues. Al netto di tutte le influenze, volevo tuttavia fare un lavoro il più onesto e naturale possibile. Per questo i miei ascolti non sono entrati senza filtro nei brani.

Touch The World è corredato da un cortometraggio. Da dove è nata l’esigenza di accompagnare le canzoni con una componente audiovisiva?
In questo ultimo anno e mezzo ho sviluppato una grande passione per il cinema, e ho voluto realizzare qualcosa che non fosse un semplice video clip. Inoltre desideravo raccontare una storia, come emerge anche dai testi delle canzoni: non volevo adottare soluzioni semplicistiche ma comunicare una molteplicità di interpretazioni possibili, come in un libro. Per questo ho scelto il cortometraggio invece: un format più lungo e denso, che si prestasse a svariate interpretazioni e risultasse meno artificioso di un semplice “official music video”. È come se raccontassi una storia, ma non fossi lì a tenerti la mano: in questo modo è possibile innescare una vera esperienza artistica; solo l’arte pigra è univoca, priva di ombre e sfaccettature. Il risultato è una storia che scaturisce da tante mie esperienze personali, ma che si proietta in una dimensione universale, che arriva anche alle persone che la fruiscono.

Nel cortometraggio emerge, soprattutto in alcuni frame, il gusto per la simmetria e i particolari, in stile Wes Anderson. In che cosa questo stile può aiutare a svelare i significati, spesso solo evocati, delle scene?
Mentre scrivevo il documentario ho iniziato ad appassionarmi alla storia del colore nel cinema, prendendo come punto di riferimento Wes Anderson e Stanley Kubrick, di cui ho indagato l’uso delle palette, dei contrasti cromatici e delle simmetrie: tutti elementi funzionali alla narrazione. La simmetria del mio corto non è soltanto un omaggio a quei registi, ma serve a collocare la vicenda in un mondo poco naturale, molto costruito e artificioso, di pari passo con l’ingresso nel nuovo, sconosciuto mondo di Touch The World. Anche il fatto che non si capisca bene il luogo geografico in cui si svolge la vicenda, come il totale silenzio sulla vita del protagonista, alimentano questo clima di straniamento. I colori, invece, li ho sfruttati per trasmettere le emozioni del personaggio: mutano a seconda del suo stato d’animo, infatti nel momento di perdita di controllo diventano molto caldi, a simboleggiare il confine tra lucidità e follia. Il mio obiettivo ultimo era quello di rendere il cortometraggio denso di particolari, anche stilistici, che possano comunicare tante sensazioni diverse, che costruiscano la storia stessa negli occhi di chi la guarda.

Ti abbiamo conosciuto come frontman della band Vanarin. Com’è nata la tua esperienza solista e in ch emodo si rapporta alla vita della band?
Sono molto soddisfatto di essere il cantante dei Vanarin. Ma, quando si suona in un gruppo, è come nelle relazioni: tutti hanno bisogno del proprio spazio e, per quanto si vogliano bene, non si può condividere ogni cosa. Cercavo un approccio diverso dal punto di vista artistico e musicale, una dimensione che non fosse quella della band, dove quattro teste pensanti e tutte validissime collaborano alla creazione di un progetto vero e proprio. All’interno del gruppo ciascuno ha un ruolo ben specifico e fondamentale, con certi obiettivi, certe sonorità e una certa immagine. Il progetto Dave Tendo, invece, ha altri presupposti: è interamente in mano mia, posso decidere tutto da solo e lavorarci in qualsiasi momento. È qualcosa che ogni artista, secondo me, dovrebbero sperimentare, perché ti spinge ad approfondire ambiti prima inesplorati, o ad affrontare limiti e imperfezioni personali che ti porti dietro da anni. Questa libertà artistica è esattamente lo spazio di cui si ha bisogno nelle relazioni, e ci sto provando con Dave Tendo. Chissà dove mi porterà!

Riccardo Colombo