Gruppi di volti infantili dai capelli chiari, gli occhi celesti e vitrei, i tratti delicati e la pelle candida; l’obiettivo li riprende mentre sono intenti a mettersi in mostra, a farsi guardare da un gruppo di persone capitanate da un uomo alto, che sembra scrutarli attentamente cercando qualcosa. Queste sono le immagini di apertura del documentario Alla ricerca di Tadzio (1970), che testimonia il viaggio compiuto dal regista Luchino Visconti nei paesi dell’Europa del Nord alla ricerca del ragazzo che avrebbe interpretato Tadzio nell’adattamento cinematografico della novella La morte a Venezia (1912) dello scrittore tedesco Thomas Mann. La storia è quella dell’artista Gustav von Aschenbach, che si reca a Venezia per un soggiorno all’Hotel Des Bains e nota Tadzio, un quattordicenne dalla bellezza sublime che si trova lì con la sua famiglia. Tadzio rappresenta per von Aschenbach l’ideale di bellezza e perfezione classica, le cui fattezze sono paragobabili a quelle di una statua greca: per un artista arrivato a uno stato di ascesi, che ha ormai strutturato la sua vita in funzione dell’arte, le pulsioni amorose nei confronti di Tadzio sono distruttive, e la scoperta che una tale bellezza appartiene al mondo terreno e non a quello dell’arte trasforma quell’impulso in una “pulsione di morte”.
La figura di Tadzio incarna così gli ideali contrastanti di bellezza, amore e morte. Come riuscire a trovare un volto e un corpo infantile che possa impersonare la causa della morte spirituale dell’alter ego di Mann? Ed ecco che il documentario Il ragazzo più bello del mondo di Kristina Lindström e Kristian Petri, al cinema il 13, 14 e 15 settembre 2021, segue i provini di Visconti, in Svezia. La porta della sala si apre e un giovane dai tratti gentili e il volto contornato da una cornice dorata fa la sua apparizione. È più alto rispetto agli altri, ha fattezze infantili ma uno sguardo adulto, di un grigio densissimo, e sembra avvolto da un’aura di mistero, da un’oscurità che lotta contro quelle sembianze angeliche. Visconti lo osserva, ordina di scattargli delle foto, gli fa togliere i vestiti, lo fa sfilare. Quel ragazzo si chiama Björn Andrésen, e Visconti trova in lui il perfetto Tadzio.
Presentato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, Il ragazzo più bello del mondo ci mostra quelle immagini degli anni ’70 per poi catapultarci nel contemporaneo, nell’appartamento fatiscente di un anziano compositore disordinato che vive nel totale abbandono, in condizioni precarie e malsane. Riconosciamo immediatamente quello stesso sguardo che pochi minuti prima abbiamo visto conquistare il regista italiano, quei tratti delicati adesso nascosti da una lunga barba bianca. Cos’è successo, da allora, a Björn Andrésen? L’attore svedese non ha solo vissuto la delusione che spesso incupisce le vite di una child-star passata, Björn ha qualcosa di più oscuro che sembra avere segnato la sua esistenza, un dolore tanto forte visibile fin dalla una tenera età e che convinse Visconti ad assegnargli il ruolo di “angelo della morte”. Prima che la sua vita si incrociasse con quella di Visconti per cambiare radicalmente, Björn era un ragazzo orfano, scappato dal collegio per raggiungere casa della nonna. Non aveva mai conosciuto il padre, né aveva mai saputo il suo nome, e la madre era scomparsa quando lui e la sorella erano ancora molto piccoli. Björn era cresciuto portandosi dietro il dolore dell’abbandono, che l’aveva reso un bambino timido dall’aria tormentata: è proprio sua nonna a convincerlo a partecipare al provino di Visconti, nonostante, lui non volesse neanche essere lì, come racconta l’attore.
Quando viene scelto per il ruolo di Tadzio, le aspettative nei suoi confronti cominciano a crescere e appesantirsi, e dopo il lancio del film la situazione peggiora. Björn, viene gettato improvvisamente in balia di orde di fotografi, critici, giornalisti, imprenditori, pronti a fare del suo volto un brand. Sul giovanissimo attore gravavano anche le pressioni di Visconti, dei clienti, degli uomini e delle donne che lo osservavano con aria maliziosa, e quella più incombente di sua nonna, che si era ritrovata improvvisamente a essere la tutrice del “ragazzo più bello del mondo”. Al Festival di Cannes, in occasione dell’anteprima di Morte a Venezia, il giovane si aggira con uno sguardo assente, quello di un ragazzo a cui l’infanzia era stata rubata per la seconda volta. Nonostante un contratto che legava i diritti del volto di Björn solo ed esclusivamente a Luchino Visconti per tre anni, così che nessun altro avrebbe potuto approfittarsi di quella bellezza in fiore, l’aspetto esteriore del giovane attore svedese viene successivamente sfruttata dall’industria dello spettacolo giapponese.

Come spiegano i produttori giapponesi intervistati nel documentario, Björn incarnava alla perfezione il modello del “Bishonen”, ovvero il canone di bellezza legato a una figura maschile dall’apparenza androgina e dai tratti delicati, che corrisponde all’estetica dei protagonisti maschili di manga ed anime. Secondo i “Cute Studies” teorizzati dallo studioso e professore della Tokyo Gakuegei University Joshua Dale, la “cultura dell’idolo” giapponese, che è tutt’oggi uno degli argomenti più dibattuti della cultura locale, esercita un’incredibile influenza anche sull’assetto politico del paese, e sembra essere nata proprio grazie a Björn, il primo di una serie di adolescenti aggraziati e “intoccabili” manovrati dalle agenzie e brandizzati per la produzione di gadget, libri o linee d’abbigliamento, trasformandoli in veri e propri marchi da appiccicare un po’ ovunque – spot pubblicitari, servizi fotografici e un album musicale. Björn incise un disco in giapponese con il suo volto in copertina, mentre il popolo del paese lo idolatrava come un Dio sceso in terra. Desiderato ma inviolabile, Björn era perfetto per quell’ipocrita industria, tanto da influenzare persino i Mangaka, gli artisti di fumetti giapponesi. Riyoko Ikeda, famosa disegnatrice del manga Lady Oscar, racconta di essersi ispirata a Björn per la sua protagonista, e di aver dunque ritratto il giovane svedese per ben 45 anni. “Quel film era riuscito a catturare il momento in cui era all’apice della sua bellezza,” racconta l’artista.
Come segnato da un destino già scritto, l’attore svedese viene travolto dal dolore decenni più tardi per la perdita di un figlio appena nato, scivolando in un tunnel di alcol e droghe, afflitto dalla depressione e dallo stigma di essere stato “il ragazzo più bello del mondo” che lo intrappola nel suo stesso ego. Al contrario di Tadzio, che nel libro di Mann è descritto come un ragazzino dall’aspetto debole, portando il protagonista a compiacersi dell’idea che probabilmente morirà giovane e nessuno riuscirà ad amarlo, Björn è invecchiato, un simulacro di qualcosa che non c’è più. Il dramma dell’ideologia borghese contro l’etica dell’arte, centrale nel romanzo e nel film La morte a Venezia, ritorna paradossalmente nella storia stessa della realizzazione dell’opera di Visconti e nella vita di Björn Andrésen, che oggi cerca di riappacificarsi con il se stesso bambino, vittima di un mondo estetizzante che trasforma gli esseri umani in simboli vacui.
Arianna Caserta
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