Voto

10

Qual è il segreto di una relazione stabile e capace di resistere alle avversità quotidiane? Com’è possibile instaurare un legame di complicità che duri “finché morte non ci separi”? Ogni rapporto si regge su quel “filo nascosto”, ignoto e indefinibile, che intreccia due anime. E come un tessuto può intrecciarsi a qualsiasi cosa, da ciocche di capelli a messaggi segreti, così questo filo può assumere qualsiasi forma…

Le due esistenze che per caso si incontrano e iniziano a tessere il filo del loro legame sono quelle di Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis), un sarto d’alta moda egocentrico, insofferente e nichilista, proprietario di uno degli atelier più in vista della Londra degli anni ‘50, e Alma Elson (Vicky Krieps), una goffa e sgraziata cameriera di provincia che mentre lo serve inciampa e arrossisce. Una relazione la cui esclusività è minacciata da quel solido filo nascosto che lega Reynolds alla sorella, l’austera e territoriale Cyril (Lesley Manville), e alla defunta madre, la cui presenza fantasmatica infesta e protegge l’House of Woodcock.

Come in Rebecca – La prima moglie e Vertigo – La donna che visse due volte di Hitchcock, il filo nascosto non è solo il legame pian piano tessuto dai due amanti, ma anche quello che Alma è decisa a recidere, secondo un aggiramento manipolatorio da brividi e pelle d’oca, sotterraneo e subdolo, eppure necessario affinché la scintilla che li ha legati al loro primo sguardo si trasformi in un amore eterno. Una manipolazione che passa attraverso il corpo, una manipolazione tattile su cui Anderson si sofferma a più riprese, insistendo su immagini aptiche di mani che cuciono, scuciono, toccano i tessuti e intrecciano messaggi segreti.

Per Reynolds, e per lo spettatore con lui, Alma è un corpo misterioso di cui non sa nulla, un corpo da scoprire, da misurare, da indagare per plasmarlo come un demiurgo e trasformarlo nella sua fonte d’ispirazione. Ma il corpo di Alma è un corpo petulante che si ribella, rifiutandosi di giocare e di essere quantificato. È così che, con gesti appena percettibili e dialoghi ridotti a perfetti stralci di conversazioni, avviene la manipolazione, il passaggio di testimone: “Let me drive for you”. Da questo momento si spezza la maledizione dello scapolo, e la sua completa dedizione ai legami familiari si tramuta in un amore necessario, in un bisogno viscerale di nessun altro che di Alma. È lei la donna che lo fa ammalare, che gli condiziona la salute e il lavoro: lo tiene in pugno. Ed è sempre lei l’unica capace di guarirlo.

La micro società dell’atelier si muove in una casa dalle atmosfere gotiche, indagata dalla macchina da presa con una certa reverenza che si concretizza in continue inquadrature dal basso verso l’alto, prima verso Reynolds, il cuore pulsante della casa, poi verso Alma, la nuova signora Woodcock. Un esempio tra i tanti di come la regia di Anderson ami sottolineare con una raffinatezza da togliere il fiato i meccanismi sottilissimi che sottendono alla vivifica alternanza di ruoli nella relazione sadomasochistica di Reynolds e Alma, nel loro rapporto di amore, potere e forza, di viscerale sostegno reciproco.

Se ogni coppia deve individuare il proprio filo nascosto, quell’equilibrio e quei meccanismi che gli permettono di funzionare, Reyolds e Alma lo trovano nel cibo. Unico elemento pornografico di questo film senza sesso, ritratto con una calda sensualità fin dal loro primo incontro e presenza costante del film, il cibo è inoltre un chiaro indicatore dei moti dell’animo di Reynolds. Il loro filo nascosto altro non è che un bisogno fisiologico e insaziabile, una fame atavica instillata in lui da Alma e che solo Alma può saziare.

Benedetta Pini