“Il regista più influente della sua generazione”, così l’ha definito Peter Bogdanovich. Ed è per via di questa sua personalità ingombrante che Quentin Tarantino,negli ultimi anni si è ritrovato al centro di numerose polemiche. Fra tutte, una riecheggia con ciclicità attorno all’uscita di ogni film: la misoginia soggiacente alle sue narrazioni. A difendere il regista non servono azzeccagarbugli dell’ultimo minuto e di dubbia credibilità come Harvey Weinstein, che all’uscita di The Hateful Eight (USA, 2015) si scagliò contro i detrattori del regista, elevandolo a paladino delle donne; basta guardare i suoi lavori. Scorrendo la filmografia di Tarantino è possibile individuare personaggi femminili che sovvertono dalle fondamenta le dinamiche patriarcali e maschiliste che governano la logica hollywoodiana. Donne autosufficienti, donne che non hanno bisogno di essere salvate, eroine contemporanee in grado di combattere le proprie battaglie senza il bisogno di un eroe da action movie che corra in loro soccorso e sciolga l’intreccio.

Seguendo un ordine cronologico, si può partire da Jackie Brown (USA, 1997), adattamento cinematografico del romanzo di Elmore Leonard Rum Punch (1992). La protagonista del film – interpretata da un’icona della blaxploitation come Pam Grier – è una donna afroamericana e non bianca: la blackness si rivela essenziale per il personaggio e le dona quella saggezza della strada che le permette di sopraffare l’intero universo filmico, quasi esclusivamente governato da uomini. La pellicola si affranca così dal genere hard-boiled – all’interno del quale la misoginia è un topos ricorrente – per avvicinarsi al neo-noir contemporaneo, che accoglie figure femminili controverse e spietate. Un’attitudine che non manca a Jackie e si manifesta pienamente nel suo rapporto con Max Cherry (Robert Forster): l’uomo è un personaggio dimesso e inefficace; una posizione inedita per le dinamiche patriarcali solitamente messe in scena a Hollywood. Le soggettive di Max sulla donna in alternanza ai primi piani sul volto di lui ne denunciano la subalternità: Jackie non è l’oggetto di uno sguardo ma soggetto che guarda e il fascino che esercita sull’uomo passa attraverso il timore nei confronti della donna. Fin dal loro primo incontro il rapporto tra i due si dimostra infatti anomalo e culmina nel ruolo ricoperto da Max durante l’inganno ai danni di Ordell (Samuel L. Jackson), che ribadisce l’inazione come sua attitudine caratteristica.

Tra il 2003 e il 2004 escono Kill Bill Vol.: 1 e Kill Bill Vol.: 2, un racconto di vendetta che vede nel ruolo di protagonista Uma Thurman/Beatrix Kiddo/Black Mamba; una figura che sdogana ancora una volta l’ideale retrogrado della donna indifesa e incapace di farsi giustizia da sé. In questo caso lo spettatore si misura con un mondo quasi interamente dominato da donne, fatta eccezione di Bill (David Carradine) e del fratello Budd (Michael Madsen). Beatrix incarna lo spirito della donna ferita alla quale è stato portato via tutto ciò che aveva: la sua risalita dal fondo – scandita dai pugni sul legno della bara – è simbolo di una resurrezione costruita attraverso il sangue, il sudore e la sofferenza. È lei che muove le fila del racconto e, assetata di vendetta, destituisce l’universo maschile per ottenere la libertà di scegliere che cosa fare della propria vita. Oltre a Beatrix, Kill Bill indaga differenti tipologie di donne, tutte dotate di caratteristiche e sfumature specifiche ma accomunate dall’indipendenza e dalla consapevolezza delle scelte che hanno plasmato il loro futuro. Vernita Green (Vivica A. Fox) ha costruito la famiglia borghese che desiderava, O-Ren Ishii (Lucy Liu) ha preso il comando della Yakuza dopo aver ottenuto il rispetto degli altri consociati tramite la decapitazione di un dissidente, Elle Driver (Daryl Hannah) rappresenta una sorta di doppelgänger di Beatrix, le cui differenze si esprimono massimamente nel rapporto con Pai Mei (Gordon Liu).

Tre anni dopo Tarantino gira Grindhouse – A prova di morte (USA, 2007), un high race car movie parte di un’opera a due episodi in omaggio ai film d’exploitation. Le protagoniste – definite le “sorelline” di Black Mamba – sono Kim (Tracie Thoms), Zoë (Zoë Bell) e Abernathy (Rosario Dawson). La forza di queste tre Amazzoni texane non è solo fisica ma anche verbale: i loro dialoghi relegano gli uomini a meri oggetti, utilizzati solo quando necessità e voglia collimano. A fare le spese della loro implacabile furia è il misogino serial killer Stuntman Mike (Kurt Russell), un maniaco che celebra l’atto sessuale dilaniando corpi femminili attraverso incidenti stradali da lui stesso provocati. Dopo aver respinto l’assalto dell’uomo, si innesca ancora una volta il tema della vendetta femminile, che progressivamente depotenzia il ruolo di Stuntman Mike fino a ribaltarlo, segnando il passaggio del personaggio da carnefice a vittima. Accerchiato dalle ragazze e in balìa di calci e pugni – scanditi da un montaggio convulso che ben riassume il ritmo di tutta la narrazione –, si manifesta ancora una volta l’impotenza della figura maschile, spogliata di ogni sua presunta superiorità e riportata a una condizione di subordinazione in rapporto a quello che non è il sesso debole. E che valga una volta per tutte.

Rino Seu