Il 5 marzo 1922 nasceva Pier Paolo Pasolini. Intellettuale poliedrico e dall’animo eternamente giovane, Pasolini ha scritto la storia della società italiana contemporanea, muovendo una forte critica alla perdita delle tradizioni agricole a causa dell’imporsi del consumismo o, come preferiva chiamarlo lui, del “nuovo fascismo”.

Intorno agli anni ’60 il poeta bolognese si rende conto che il mezzo cinematografico è più potente e diffuso di qualsiasi altro medium comunicativo e decide così di accostarsi gradualmente alla settima arte, dopo diverse esperienze come sceneggiatore (tra le più importanti ricordiamo quelle al fianco di Federico Fellini). Cineasta provocatorio e ampiamente discusso, Pasolini trasporta nelle proprie opere quella stessa poetica letteraria che lo aveva reso famoso: il realismo delle borgate romane, il desiderio di dar voce alle classi sociali marginali e l’utilizzo del discorso indiretto libero.  Il suo obbiettivo era infatti quello di raccontare senza giudicare quelle realtà che la nuova borghesia vedeva negativamente, nel tentativo di sensibilizzare l’intera società. Secondo Pasolini, viviamo immersi in un mondo in cui vi sono immagini significanti, che lui definisce “im-segni”, e il compito del regista è proprio quello di coglierle e renderle evidenti agli occhi di chiunque.

I primi suoi due film, Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), possono essere letti come un ultimo tentativo di riproporre una poetica che in letteratura aveva già fatto il suo corso. Accattone (film interpretato da Franco Citti, scoperto proprio dal cineasta emiliano) è il primo film nella storia del cinema italiano a venire vietato ai minori di diciotto anni. Alla sua proiezione fuori concorso in occasione della 26esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia seguirono violente polemiche. La società perbenista dell’epoca considerò infatti il lungometraggio “pornografico”, un inno alla prostituzione delle donne italiane, ma la verità è che l’allora incomprensibile solidarietà che Pasolini nutriva nei confronti di coloro che erano considerati “scarti” della società creava attorno al cineasta non pochi dissensi in un’Italia governata dalla Democrazia Cristiana. Dalla sua parte si schierò solo una piccola parte della critica militante, che riconobbe nell’opera di Pasolini la capacità di mischiare realtà e filosofia, di comunicare tramite immagini qualcosa che poteva scardinare il pensiero comune dell’epoca.

L’anno successivo Pasolini gira Mamma Roma, film che segna l’incontro del cineasta con una delle attrici italiane più iconiche di tutti i tempi: Anna Magnani. La scelta di lavorare con un’attrice di fama internazionale permette al regista di affiancare interpreti non professionisti, principalmente provenienti “dalla strada”, ad attori professionisti, secondo la “legge dell’amalgama” (teorizzata da Bazin, volta a ridurre al minimo la menzogna drammatica per rendere il film più credibile). Questa poetica crea nel cast una difficile alchimia che diventerà una costante del suo cinema. Anche Mamma Roma rientra in quel filone tipicamente pasoliniano di storie incentrate su personaggi marginali che si affannano per sopravvivere nelle borgate romane, colpiti da continui supplizi , tragedie infernali e condanne da parte delle istituzioni per la sola colpa di essere nati nella miseria.

Quando nel 1963 Pasolini e il suo produttore Alfredo Bini attraversano l’Italia alla ricerca delle location per il film successivo (Il Vangelo Secondo Matteo,1964), al regista viene l’idea di girare una serie di interviste, o meglio, di brevi conversazioni comuni con interlocutori appartenenti a tutti gli strati sociali e di tutte le età, che vengono poi suddivise per argomento. Il risultato è il docufilm Comizi d’amore (1963), che tratta i tabù legati al sesso: come nascono i bambini, la soddisfazione nella vita sessuale e matrimoniale, le differenze di comportamento e di regole tra i sessi, la gelosia, l’infedeltà, la prostituzione, le case di tolleranza, l’omosessualità, le perversioni, il concetto dell’onore e le sue conseguenze. Questa opera permette di capire molto della complessa e affascinante personalità di Pasolini, in particolare la sua vocazione pedagogica, la voglia non solo di comunicare un messaggio ma di insegnare qualcosa di profondo.

Dopo la metà degli anni Sessanta il cinema di Pasolini cambia radicalmente. Se nel periodo precedente si era inserito nella corrente neorealista, successivamente i suoi film si modificano in direzione di un’estetica  più elitaria e sofisticata, avvicinando l’immagine filmica al simbolismo filosofico. Film come Teorema (1968) e Porcile (1969), per esempio, sottolineano quanto il cinema per Pasolini fosse una vera e propria ricerca intellettuale e filosofica: “Il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è anche un’esperienza filosofica”. Quello di Pasolini era un cinema sospeso tra realtà e filosofia, un cinema capace di coinvolgere culturalmente lo spettatore a tal punto da spingerlo a ragionare e a porsi delle domande senza però fornirgli alcuna risposta.

All’alba del 2 novembre 1975 viene trovato il corpo esanime di Pier Paolo Pasolini, martoriato e abbandonato nello squallore dell’idroscalo di Ostia. Così finiva di colpo la vita di uno dei più grandi poeti del Novecento italiano. Risuonano ancora le parole dell’orazione funebre di Alberto Moravia in onore di Pasolini: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeti”. Oggi Pasolini è e rimarrà per sempre “una forza del passato”.    

Mattia Migliarino