MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso museale cinematografico attraverso mezzi diversi: i film, che possono essere in Cartellone o a noleggio, il Feed, che mostra cosa guardano gli altri utenti, il Notebook con notizie, interviste, reportage, approfondimenti; e ancora, la Comunità, ovvero il social di MUBI integrato a tutti gli altri, i Focus, gli Speciali e le Retrospettive. Ogni giorno viene proposto un nuovo film, che resta visibile per un mese e viene poi sostituito da un altro, in una rotazione continua. Dal 20 maggio 2020, MUBI ha introdotto la sezione Videoteca: una libreria di centinaia di titoli a completa disposizione di tutti gli utenti.
MUBI è arrivato una volta per tutte nel mercato italiano e questo mese di luglio lo dimostra perfettamente. Per la piattaforma questo è un momento decisivo non solo per la prima distribuzione cinematografica (First Cow), ma anche per una line-up ricchissima di titoli che mostrano l’interesse tanto per il cinema contemporaneo dei grandi autori (da Serra a Diaz) e dei nomi meno noti (Midi Z), quanto per la riscoperta di un cinema spesso dimenticato da un pubblico fermo alla propria contemporaneità. Questi due mondi convivono perfettamente in una piattaforma che nel corso del tempo diventa sempre più ambiziosa sia per titoli proposti che per le rassegne presentate.
La mort de Louis XIV, Albert Serra, Francia, 2016 (1 luglio)
Nel 1966 Roberto Rossellini dirigeva per la televisione francese La presa del potere da parte di Luigi XIV, film che analizzava l’ascesa del Re Sole attraverso la commistione tra un linguaggio puramente filmico e uno squisitamente televisivo. Cinquant’anni dopo, la vicenda storica e personale del sovrano viene nuovamente messa in scena come manifestazione tangibile del potere, ma questa volta il focus ricade sul crepuscolo del regno. Albert Serra è un nome conosciuto del circuito cinematografico d’autore per il suo stile fortemente personale, basato sulle diverse sensazioni che un’opera sperimentale può esercitare sullo spettatore. In un’epoca come la nostra, in cui il pubblico viene continuamente anestetizzato e salvaguardato dalle controversie insite nelle immagini, non stupisce quindi che un regista così fortemente legato al passato possa ancora creare scandalo (come avvenne alla presentazione a Cannes nel 2019 del suo ultimo film Liberté). La mort de Louis XIV rispetto ad altri lavori del regista si presenta maggiormente incanalabile in una rappresentazione normata, ma non per questo priva di fascino o importanza. Serra infatti segue la strada precedentemente tracciata da Rossellini, riproducendo fedelmente non solo la fine dell’esistenza del sovrano ma anche quella di un mondo che presto sarebbe stato spazzato via dalla modernità. Questa sensazione “apocalittica” è ancora più accentuata nel film successivo che, pur trattando la stessa vicenda, si abbandona alla piena sperimentazione visiva: in Roi Soleil (2018) infatti la morte di Luigi XIV si colloca in una modernissima galleria d’arte contemporanea di Lisbona, inondata da luci rosse e oggetti che richiamano simbolicamente le varie sfaccettature del potere. La mort de Louis XIV nella sua semplicità guarda invece a Rossellini, inquadrando l’impossibilità dell’uomo di mantenere il potere assoluto in eterno attraverso un’accurata descrizione non solo del sovrano nel momento di massima umanità, ma anche della corte impegnata nei preparativi ineluttabili per la successione del potere.
Forza maggiore, Ruben Östlund, Svezia, 2014 (3 luglio)
Forza Maggiore si basa su uno spunto narrativo semplice quanto estremamente attuale: una famiglia svedese si trova in un resort sulle Alpi francesi quando durante un pasto una valanga inizia a procedere velocemente e pericolosamente verso l’albergo; il padre, sopravalutando la situazione, fugge lasciando al loro destino moglie e figli. Se il disastro naturale non colpisce fisicamente nessun membro della famiglia, ne spezzerà però i già precari legami. Come fece nel precedente Play, Östlund affronta ancora una volta le contraddizioni delle società nordeuropee, ma se nel film del 2011 ironizzava sul terrore di essere tacciati di razzismo, in questa nuova pellicola mette alla berlina i ruoli stereotipici che caratterizzano la famiglia “tradizionale” e non solo: il padre, il cui ruolo dovrebbe essere quello di proteggere i figli, si dà alla fuga rinnegando questo compito che diventa priorità della madre. Le certezze di una famiglia piccolo borghese vengono così incrinate sempre di più, perfettamente in linea con la narrativa di Ostlund, il quale è solito innestare piccoli eventi a volte criminali le cui spesso grandi ripercussioni portano i protagonisti a mettere in discussione le proprie vite: in Play, per esempio, il gioco di ruolo di una baby gang creato per derubare tre bambini arriva non solo a demolire il rapporto di amicizia che lega le vittime ma anche a far accusare di razzismo il padre di uno di questi, mentre in The Square (2017) la vita professionale di un conosciuto direttore di un museo d’arte contemporanea viene distrutta da un banale furto. Attraverso questo efficace pattern narrativo, quindi, il regista riflette sul comportamento degli esseri umani, e su come possa deviare e trasformarsi in situazioni totalmente fuori dalla norma. Non a caso Tomas, il capofamiglia, viene modellato sulla figura tristemente nota in Italia di Francesco Schettino che fu il principale responsabile del disastro della Costa Concordia. Proprio il suo accampare scuse e inventarsi situazioni per Östlund fu l’esemplificazione perfetta dell’uomo in difficoltà che vuole fuggire da una situazione apparentemente senza vie d’uscita.
Ang Hupa, Lav Diaz, Filippine, 2019 (12 luglio)
Il cinema di Lav Diaz non è mai uguale a sé stesso: il cineasta filippino nel corso degli anni ha saputo infatti rinnovare la propria produzione, innestando su una poetica di fondo immutata nuove sperimentazioni capaci di regalare opere via via sempre più interessanti. Già in Season of the Devil (2018) il regista aveva dato prova della propria versatilità, cimentandosi nella commistione del dramma politico e del musical per raccontare la storia di una coppia di sposi, lei una dottoressa e lui un poeta, e della loro quotidianità in un paesino agricolo durante la prima fase della dittatura di Ferdinand Marcos. Se in questo lungometraggio Diaz si è avvicinato al mondo della poesia cantata, attraverso la partizione a cappella, con il suo ultimo lavoro Ang Hupa (o The Halt) rimescola ancora una volta le carte in tavola, dedicandosi al genere fantascientifico. L’azione prende piede nel 2034 in un sudest asiatico futuristico, caratterizzato da una notte continua formata dalle incessanti eruzioni vulcaniche. Il potere è nelle mani di un solo uomo, che ben esemplifica il leader populista moderno terrificante quando buffo e istrionico. Anche in questo caso il soggetto diventa quindi un punto di partenza per raccontare il mondo contemporaneo delle Filippine e non è difficile vedere nel dittatore di questo mondo futuristico il presidente attuale Rodrigo Duterte. Nonostante il film racconti un mondo distopico, la mente si dirige subito alla descrizione della dittatura presente in Season of the Devil o alla spietatezza dei colonizzatori spagnoli messa in scena in A Lullaby to the Sorrowful Mystery (2016), mettendo luce sull’importanza del cinema di Lav Diaz, capace di raccontare veramente tanto il passato della nazione quanto il suo presente, impossibilitato a cambiare il corso delle cose.
Nina Wu, Midi Z, Malesia, 2019 (13 luglio)
Midi Z è un regista taiwanese caro alla piattaforma che già aveva accolto The Road to Mandalay (2016) e che questo mese propone il suo ultimo lavoro, Nina Wu, presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes. Nina Wu è una giovane attrice che per cercare fortuna nel mondo del cinema si sposta da un piccolo villaggio alla grande città; lo scontro tra questi due mondi è il filo conduttore che caratterizza l’intero film e che metterà la protagonista e la sua sanità mentale a dura prova. La pellicola in particolare ruota intorno alla contraddizione tra realtà e finzione, a cui si aggiunge un sotto testo che richiama gli effetti provocati in tutto il mondo dal movimento Me Too: il regista infatti rappresenta l’industria cinematografica del sudest asiatico come un luogo le cui molestie e prevaricazioni sono all’ordine del giorno; tuttavia, il presunto carattere politico dell’opera non si afferma mai chiaramente, attraverso una sempre meno certa dicotomia tra realtà e finzione che rende così difficile allo spettatore capire ciò che realmente accade. Rispetto all’opera precedente il regista abbandona il registro semi documentaristico per abbracciare toni e stili più vicini al meta-cinema, inserendosi in un filone ben preciso nel quale trova spazio anche il capolavoro di Satoshi Kon Perfect Blue (1997). Nonostante lo stile ancora acerbo, il regista riesce a distinguersi da altri autori indipendenti iniziando a definire una propria personale visione, schivando così quella tendenza ad appiattire la proprio voce artistica ad una certa estetica o tematica.
Roubaix, una luce, Arnaud Desplechin, Francia, 2019 (15 luglio)
Gli ultimi film di Desplechin, come quelli di Ozon e Dumont, sono tutti caratterizzati da un ritorno a quelle tendenze cinematografiche che hanno segnato la Francia negli anni Novanta e che hanno fatto conoscere questi autori a un pubblico internazionale. Roubaix, una luce infatti ripropone l’atmosfera estiva e le località già presenti in film come Racconto di Natale (2008), nonostante la storia cambi drasticamente: questa messa in scena non fa più da sfondo a un racconto di contrasti familiari nel mondo piccolo borghese bensì all’indagine per la morte di una anziana signora per cui vengono subito arrestate due giovani dal passato burrascoso. Il lungometraggio diventa per il regista un’occasione per analizzare le caratteristiche del genere poliziesco, arrivando quasi a citare il documentario da cui l’opera trae ispirazione con una rappresentazione integrale delle indagini e soprattutto degli interrogatori, senza sconti di durata allo spettatore. Se nelle opere precedenti tale accuratezza veniva utilizzata da Desplechin per analizzare la borghesia francese, ora tocca la polizia francese e tutto quel sottobosco della piccola criminalità che da sempre costituiscono i soggetti fissi della non fiction oltralpe. A questo si aggiunge la descrizione della provincia francese, che si allontana dai toni dissacranti e a volte macchiettistici di Chabrol per dipingere un affresco veritiero di una società apparentemente stagnante ma in constante dissidio politico e sociale.
Pentimento, Tengiz Abuladze, Unione Sovietica, 1984 (15 luglio)
Pochi film come Pentimento sono stati capaci di raccontare un periodo storico così particolare e delicato come il progressivo crollo dell’Unione Sovietica, che avrebbe travolto l’Europa orientale lasciando uno strascico di morte e prevaricazione. Il film di Tengiz Abuladze, ormai poco noto in Italia nonostante la vittoria del Gran Premio della Giuria a Cannes, riflette proprio sull’atto del ricordare e sull’importanza del passato nella costruzione di un futuro non tanto migliore quanto maggiormente consapevole. Il lungometraggio non si concentra su personalità illustri bensì analizza la vita politica di un piccolo paese segnato dalla recente morte del capovillaggio Varlam. La comunità viene scossa dalla notizia che una donna continua a disseppellire il corpo dell’uomo con lo scopo di non cancellare la sua figura e le sue colpe dalla memoria collettiva. Questo provoca un tumulto nella sonnolenta vita del villaggio, che deve scendere a patti con un passato spinoso durante il quale il defunto aveva imposto un regime semi-staliniano vendicativo e violento. La riemersione dei delitti, rappresentata letteralmente dal trafugamento del cadavere, porta a una crisi generazionale tra i giovani, inorriditi dal passato recente, e i loro padri, che cercano di minimizzare le responsabilità. Non è quindi un caso se il film girato nel 1984 venne distribuito in Unione Sovietica solo nel 1986 con l’apertura di Gorbačëv alla libertà di espressione. Presto i giovani (e non) avrebbero distrutto il passato oppressivo, non facendo però mai i conti con i delitti dei padri ancori irrisolti.
Diamantino, Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt, Brasile, 2018 (27 luglio)
Nel panorama festivaliero Daniel Schmidt e Gabriel Abrantes sono diventati noti per i loro cortometraggi in cui importanti riflessioni su argomenti estremamente attuali vengono mediati con un tono dissacrante, come nel caso di A History of Mutual Respect (2010). Molti quindi aspettavano al varco l’esordio al lungometraggio di questa atipica coppia che non ha tardato ad accontentare i più con Diamantino, film del 2018 in cui tutti gli elementi che hanno caratterizzato le opere precedenti dei registi vengono esasperati, situando l’opera nella zona nebulosa che separa il pop, il camp e il trash. Diamantino è un campione del calcio portoghese (modellato sulle fattezze di Cristiano Ronaldo), definito Michelangelo per le sue prodezze del pallone ma che, in una delle partite decisive, sbaglia un rigore. Da questo errore che rovina la carriera del protagonista si dipana un pastiche folle di personaggi, tra i quali un gruppo di fascisti che vogliono clonare il calciatore per creare un superuomo. Un contenitore senz’altro unico nel suo genere che parodizza l’intero mondo calcistico e culturale europeo ma che, tuttavia, attraverso la forma del lungometraggio fa emergere alcuni limiti rimasti sopiti in opere più brevi. Diamantino resta comunque una buona opera prima: il punto di forza è infatti la fantasia che caratterizza il duo, capace di creare situazioni surreali sia visivamente che narrativamente, richiamando sotto alcuni aspetti uno dei capolavori del passato decennio, Le mille e una notte di Miguel Gomes (2015).
O něčem jiném, Věra Chytilová, Repubblica Socialista Cecoslovacca, 1963 (31 luglio)
Věra Chytilová è senza dubbio una degli autori che caratterizzarono la Nová vlna, la Nouvelle Vague cecoslovacca, movimento che si scontrò pesantemente con le imposizioni di un cinema di matrice socialista, mirato alla produzione di storie dalla morale edificante imperniate su un realismo di facciata (come avvenne anche nel caso della produzione pittorica coeva). Da questo punto di vista, O něčem jiném rappresenta una piccola rivoluzione poiché mostra allo spettatore due realtà veritiere, non più mediate dalle lenti della morale politica: da una parte la vita quotidiana e la massacrante preparazione della campionessa olimpica di atletica Eva Bosáková (chiamata solo Eva), dall’altra il racconto di finzione di Vera, una donna alle prese con un matrimonio fallito. Gli allenamenti, tuttavia, non ci mostrano atleti sempre perfetti e allenatori impeccabili, così come la vita coniugale di Vera risente di tutti i problemi tipici della famiglia occidentale: sfruttando lo strumento del parallelismo, la regista riesce così a mettere in scena la realtà com’è veramente e non come dovrebbe essere, facendosi esempio di un movimento che non si accostò solo al mondo del cinema fantastico ma che fu anche una grande palestra per raccontare il reale e per distaccarsi, almeno momentaneamente, da quel realismo sovietico ormai arrivato al capolinea.
Davide Rui
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