È il 1924. Il produttore Micheal Balcon, a capo della Gainsborough Pictures, invia il giovane sceneggiatore tuttofare e neoassunto Alfred Hitchcock in Baviera per dirigere due produzioni anglo-tedesche in accordo con Eric Pommer, produttore responsabile dei più grandi capolavori cinematografici tedeschi dell’epoca. Qui il giovane enfant prodige (non aveva ancora trent’anni) entra in contatto con il favoloso mondo espressionista e ne incontra i due più monumentali interpreti: Fritz Lang, reduce dal successo dei Nibelunghi, e Friedrich Wilhelm Murnau, di cui diventa assistente per le riprese di Ultima risata (1925). Come la giovane Alice, Hitchcock si aggira per gli studi dell’UFA di Berlino vivendo in quel Paese delle Meraviglie espressionista attratto e incantato dalle mirabolanti scenografie dipinte, dai violenti contrasti di luci e ombre e dalle riprese deformanti che mai aveva conosciuto in Inghilterra.

In questi mesi, la sensibilità artistica del futuro cineasta viene plasmata e vengono gettati molti dei semi destinati a germogliare negli anni successivi forgiando lo stile tanto riconoscibile e indimenticabile del maestro del brivido. Dai due grandi modelli trae soprattutto una concezione estremamente visuale dell’arte cinematografica: il cinema non è altro che una lente deformante sul reale e, come afferma lo stesso Lang, “per capire il suo linguaggio non c’è bisogno di nient’altro che di avere gli occhi aperti”. Sono proprio la manipolazione delle immagini, la deformazione delle inquadrature e la capacità di comprimere o dilatare il tempo della narrazione la maggiore eredità tecnica lasciata dal cinema espressionista tedesco a Hitchcock; tale parentela è inequivocabilmente suggellata dall’impiego di simili espedienti nel primo film da lui diretto, Il labirinto della passione (1925). La scena d’apertura vede, infatti, la messa in atto di quel sottile gioco di lenti già usato nel Dottor Mabuse (1922): la scena viene presentata attraverso la soggettiva di uno spettatore a teatro, e se inizialmente l’inquadratura appare tanto sfocata da non riuscire neanche a distinguere il palcoscenico, viene messa a fuoco non appena l’uomo indossa il monocolo e finalmente è possibile vedere le ballerine in modo netto e definito.

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Hitchcock e Lang si rivelano anime affini: outsider destinati ad abbandonare la propria patria e costretti a inserirsi nel soffocante studio system americano, che si tinge di tinte cupe e fosche a causa delle ombre, delle inquietudini e delle paure che i due autori portano con sé dall’Europa. Entrambi insofferenti ai dettami del Codice Hays, lo infrangono continuamente con estrema disinvoltura, guadagnandosi una discreta libertà di trasgressione grazie all’apprezzamento dimostrato dal pubblico. Ecco quindi che la distinzione manichea tra personaggi buoni e cattivi tanto cara all’aureo astro hollywoodiano nascente, viene a cadere così come il confine tra colpevolezza e innocenza, inquadrato da contorni quanto mai indefiniti e controversi. Ed è così che ne Il pensionante (1927) i due proprietari di una locanda si arrovellano nel dubbio che il loro ospite sia un pluriomicida e ne Il sospetto (1941) il pubblico è tormentato insieme alla protagonista dal timore che suo marito Cary Grant voglia ucciderla (l’RKO ha poi fortunatamente impedito a Hitchcock di ritrarre Cary Grant, il sogno di tutte le donne americane, come un assassino). Ne emerge una totale sospensione dello statuto di verità: vero e falso si mescolano portando il pubblico a simpatizzare con il presunto colpevole in totale disprezzo dell’intento moralizzante del Codice.

La dimensione onirica e metafisica guadagna sempre più spazio nelle immagini costruite dai due autori ed è accresciuta dall’uso di espedienti quali le trasparenze, che consentono di creare figure fantasmatiche sovrapponibili alla scena e interagenti con i personaggi. Così James Stewart può riabbracciare allucinatoriamente la moglie defunta in Vertigo (1958) e il fantasma del terribile Dottor Mabuse perseguita le vittime della sua malvagità. Il mondo dei sogni si fonde presto con un curioso interesse per la psicanalisi, che affiora con evidenza in opere hitchcockiane come Io ti salverò (1945), Rebecca la prima moglie (1940) e Marnie (1964), soprattutto in relazione alle crisi identitarie che affliggono le protagoniste.

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La dominatrice incontrastata del cinema espressionista è certamente la luce. Fritz Lang afferma: “Tutto ciò che possiede vita propria presenta un volto, una personalità, una mimica, riscoperti dal tocco di una materia da poco rifiorita nella nostra epoca: la luce. Grazie alla forza e alla perfezione, che permettono di far mutare un volto o un oggetto quando passano dalla luce all’ombra o dall’ombra alla luce”. Il ricorso ossessivo a contrasti prepotenti di luci e ombre insieme all’instancabile diade di bianco e nero cantano il dramma della discordanza e fanno della luce un raumgestaltender Faktor, cioè un “elemento generatore di spazio”.

Da un lato i volti femminili, abbacinanti e radiosi, emergono inondati dalla luce in tutta la delicatezza della loro emotività; dall’altro le figure malvagie incombono sulle loro vittime muovendosi sulla scena come nere ombre velate da oscurità e mistero – basti pensare al caso emblematico dell’accoltellamento nella doccia di Psycho (1960). Sorprendente è, inoltre, la stretta somiglianza che lega la scena finale de Il sospetto, in cui Cary Grant percorre le scale proiettando sulla parete un’ombra sinistra e portando con sé il pathos massimo del film, e l’immagine ancor più celebre di Nosferatu il vampiro di Murnau (1922), in cui la mostruosa creatura sale le scale avvicinandosi alla giovane fanciulla nel momento apicale della suspense narrativa.

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Ogni singola inquadratura, ogni stacco, movimento di camera o gesto degli attori è misurato con estrema precisione dai due auteurs, che non lasciano nulla al caso creando immagini simboliche e potentissime. Il montaggio si rivela uno strumento prezioso; la giustapposizione di immagini di diversa grandezza o di due azioni simultanee, ad esempio, contribuisce ad accentuare l’affollarsi caotico di contrasti e contrappunti. Instabili soggettive frequenti immagini distorte e turbinanti e improvvisi zoom su particolari simbolici creano un senso di vertigine straniante, facendo sì che lo spettatore assista impotente al consumarsi di figure dannate, le quali, arse dalla passione o dalla follia, vorticano nella spirale infinita di Vertigo. L’uomo innocente ingiustamente accusato è un eroe ricorrente tanto nelle opere del tedesco (Furia, Sono innocente, You and Me) quanto in quelle dell’inglese (Il pensionante, Io ti salverò, Il ladro, Io confesso, Intrigo internazionale, Frenzy), così ancora una volta la dicotomia tra colpevolezza e innocenza conduce all’ambiguità interpretativa delle pellicole riaffermando la doppiezza e il capovolgimento morale dell’uomo. L’individuo risulta sempre più spesso escluso dalla società e alienato dalle relazioni con gli altri personaggi, vittima di isteria e disperazione allucinogena (vedi M – il mostro di Düsseldorf e Psycho).

È incontestabile dunque lo spessore dell’influsso esercitato dal microcosmo espressionista sullo stile hitchcockiano, tanto dal punto di vista psicologico quanto tecnico. Da un’analisi puntuale dei suoi film, della costruzione delle scene o della prospettiva delle inquadrature emergerebbe una miriade di reminescenze espressioniste senza le quali la preziosissima atipicità del regista inglese non sarebbe balenata tanto sfolgorante nel panorama del cinema internazionale.

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Tutto questo sorprende se si pensa alle parole che molti anni dopo, nel 1962, l’ultra sessantenne Hitchcock, ormai acclamato regista di più di cinquanta pellicole e osannato dalla critica internazionale, spende in merito al cinema tedesco mentre chiacchiera col proprio intervistatore d’eccellenza, il cineasta francese François Truffaut. L’intervista, nel complesso, corrisponde a una delle conversazioni più illuminanti della storia del cinema; durante questo scambio di battute Hitchcock, ansioso si slegarsi dall’etichetta di intrattenitore delle masse, decide di svelare i segreti della propria arte al giovane ammiratore, incidendo notevolmente da allora in poi l’opinione che il pubblico aveva di lui. Le registrazioni dell’intervista sono state trasformate in un libro dallo stesso Truffaut (Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, 1967) e ora anche in un film grazie al tributo cinefilo del regista Kent Jones (Hitchcoch/Truffaut, 2015). Truffaut più volte cerca di sondare le relazioni che legano il suo auteur d’eccellenza alla corrente espressionista tedesca, ma l’orgoglioso inglese si dimostra piuttosto reticente a rivelare il proprio debito nei confronti dei tedeschi:

AH: […] l’attore al quale tenevo particolarmente e che poi ho fatto venire era Peter Lorre che per la prima volta interpretava una parte in un film inglese. Aveva appena finito di recitare in M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang. […]
FT:  Aveva visto M?
AH: Si, ma non me lo ricordo molto bene. Non c’era una scena con un uomo che zufolava?
FT:  Si, proprio Peter Lorre! Penso che in quel periodo avrà visto altri film di Fritz Lang: l’Inafferabile, il Testamento del Dottor Mabuse..
AH: Si, Mabuse l’ho visto, ma molto tempo fa … ricorda in The man who knew too much la scena del dentista? Prima doveva svolgersi da un barbiere […]

Con simili deviazioni Hitchcock vuole sottrarsi al riconoscimento dell’influenza inequivocabile che Fritz Lang e gli espressionisti tedeschi esercitarono sul suo stile e rinnegare con slealtà la tanta parte che ebbero nell’edificazione e nella longevità della sua fama mondiale.

Giorgia Maestri