Gli anni Sessanta hanno rappresentato un periodo rivoluzionario dal punto di vista storico, ma anche e soprattutto a livello artistico. In Europa le nascenti correnti artistiche si concentrano sulla scena cinematografica dando vita alle “Nuove Onde”. In Italia le neoavanguardie contribuiscono a una rottura con il passato, cambiando per sempre il rapporto tra arte e società contemporanea. In Francia la definizione “Nouvelle Vague” appare per la prima volta sul settimanale francese L’”Express” del 3 ottobre 1957. Ma il fenomeno delle Nuove Onde investe l’intera Europa, raggiungendo anche la Cecoslovacchia.

Il clima politico e culturale del Paese spinge la Cecoslovacchia socialista verso rapidi cambiamenti, che attraverso un’importante serie di liberalizzazioni portano allo sviluppo di un movimento cinematografico in grado di esprimersi ad altissimi livelli: la Nová Vlna. A differenza della Nouvelle Vague francese, l’Onda cecoslovacca non si incentra sulla descrizione di un nuovo linguaggio cinematografico ma sulla progettazione di una nuova profondità politica volta a sfidare i forti poteri dello stato. La nová vlna fu il vivaio per i futuri talenti che da lì a pochi anni solcheranno il panorama cinematografico prima cecoslovacco, poi internazionale.

Uno di questi talentuosi registi fu Miloš Forman, diventato famoso in tutto il mondo con i due Oscar a Qualcuno volò sul nido del cuculo (USA 1975) e Larry Flynt – Oltre lo scandalo (USA 1996). Prima di girare nel nuovo continente, Forman contribusce in patria ad alimentare quell’ondata di novità che stava investendo il cinema ceco. Destrutturazione del racconto, stile non troppo ricercato o formalista e stupefacente realismo nelle situazioni e nei personaggi sono le principali caratteristiche dei film che Forman gira in questo periodo. Tra i tanti titoli spicca senza uno dei film più riusciti del regista cecoslovacco: Gli amori di una bionda (Cecoslovacchia 1965), il, suo terzo lungometraggio, restaurato quest’anno dal laboratorio “L’immagine ritrovata” della Cineteca di Bologna e tornato nelle sale italiane nel mese di aprile.

Il film è un piccolo gioiello illuminato da luce tutta sua, è un granello di sabbia che scombussola le istituzioni cinematografiche allora vigenti e sancisce un nuovo modo di raccontare tramite la macchina da presa. La vicenda si svolge in una piccola città provinciale della Cecoslovacchia, location di cui il cineasta fornisce una sommaria ma accurata immagine tramite un susseguirsi di veloci inquadrature che culminano nella fabbrica dove lavora un gruppo di giovani ragazze. L’inizio è emblematico della poetica di Forman e della corrente cecoslovacca: il film si prende gioco dell’ingegneria sociale di un regime che cerca di risolvere il problema della carenza di lavoratori in una piccola cittadina.

Attraverso la trattazione della scoperta di un amore anti-idillico caratterizzato da amarezze e delusioni Forman propone un film antitetico rispetto alle convenzioni che hanno da sempre caratterizzato il cinema centro orientale. Ed è proprio l’amore tra i due ragazzi Andula (Hana Brejchová) e Milda (Vladimír Pucholt) a raccontare in modo implicito le paure e le tensioni di un Paese ancora sotto un regime rigido e autoritario. Gli amori di una bionda si configura così come un tenero affresco dei sentimenti tipici della giovane età, contrapposti a un contesto popolato da personaggi falsi e sciagurati.

Quattro anni più tardi in Cecoslovacchia la Primavera di Praga. Alexander Dubček diventa segretario del Partito Comunista Cecoslovacco e lancia la sua idea di un “comunismo dal volto umano”, dissociandosi dal regime sovietico. Ad agosto i carri armati del Patto di Varsavia occupano il Paese e lo riportano alla “normalità”. Il giovane Jan Palach si dà fuoco in piazza San Venceslao a Praga come forma di protesta non violenta. Gli amori di una bionda di Forman è il manifesto di un movimento che ha potuto aver fine solo con l’avanzata del comunismo e in pochi anni ha portato verso un nuovo modo di comunicare, un nuovo modo di fare politica e una nuova onda in tutto il cinema moderno.

Mattia Migliarino