Voto

6

L’esercito americano alla fine della Seconda Guerra Mondiale penetra in Germania; l’obiettivo è costringere i tedeschi alla resa. Quello che vedrete non sarà un coinvolgente splatter alla Tarantino, né una sfilata di omaccioni muscolosi dallo sguardo fiero e truce alla Troy: Fury è un film di guerra, fatto e finito, e le premesse sembrerebbero alquanto allettanti.

Un cast che parla da solo, capeggiato da Brad Pitt nei panni di un generale saggio ma indurito dal fronte, affiancato da Shia LaBeouf che, nonostante un poco credibile paio di baffi, stupisce tutti con la sua interpretazione, e c’è anche un giovanissimo Logan Lerman – il novellino Norman Ellison, catapultato per sbaglio tra gli orrori della guerra – che finalmente si scrolla di dosso l’immagine del ragazzo problematico di Noi siamo infinito e dà prova di saper reggere la scena.

Scontri sul campo e conflitti interiori, cameratismo e amore per la patria: tematiche importanti, forse non molto originali, ma sicuramente di vasta portata. La regia di David Ayer punta non solo sull’azione, ma anche sull’introspezione, mettendo in risalto il risentimento che s’insinua in un animo nobile: i grandi occhi azzurri di Norman, simbolo d’innocenza e di purezza, diventano progressivamente grigio pietra, sconvolti dalle atrocità commesse dall’uomo, per poi tingersi di rosso sangue guidati dalla vendetta e dal senso di sopravvivenza. È la Guerra a vincere, indipendentemente dal risultato finale.

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Una sceneggiatura che promette novità, ma non centra l’obiettivo, puntando solo su un crescendo di drammaticità: a partire dalle scene di occupazione, prosegue con il primo approccio di Norman verso la morte, e raggiunge il culmine con la “Battaglia delle Termopili” del secondo conflitto mondiale, ma questa volta non sono trecento, sono cinque gli uomini: l’impresa è ugualmente eroica e ancor più disperata.
Insomma, c’è tutto: il sacrificio per la Nazione, il cieco odio verso il nemico, la fratellanza tra compagni; e poi le imprecazioni, la raffica di proiettili, le esplosioni e il sangue.
E, purtroppo, proprio all’apice del coinvolgimento, s’intravede il limite registico di Ayer, la caduta nel cliché e nella forzatura: dialoghi inverosimili – un poco religioso Brad Pitt che individua esattamente i passi biblici citati da un compagno, a cui peraltro si affidano gli altri soldati con eccessivo fervore – ed effetti speciali improbabili, tra cui proiettili fosforescenti troppo simili ai laser delle battaglie di Guerre Stellari.

David Ayer si salva in extremis, ma non per merito suo: è fondamentale il contributo degli attori, i quali, nonostante siano messi in difficoltà dai ruoli da interpretare già visti più e più volte – il capo intransigente e divulgatore di consigli, il credente più riflessivo, lo straniero preso in giro per l’accento e il duro che non intende accettare il nuovo arrivato – conseguono un risultato più che soddisfacente.
Notevole, inoltre, l’apporto della fotografia, per nulla scontata. L’intento è mostrare la guerra da una prospettiva privilegiata, resa tramite l’efficace scelta di riprendere l’interno del carro armato, la claustrofobica seconda casa dei soldati, emblema di forza e di salvezza.
Importante è anche il supporto della colonna sonora di Steven Price, che esaspera l’elemento tragico attraverso melodie al pianoforte e cori gregoriani, affiancati da rumori di marce forzate, di passi che procedono inesorabili senza la speranza di un ritorno.
Questi gli unici punti di forza di 134 minuti di una pellicola che facilmente verrà presto archiviata. Consigliabile, forse, ma solo per una serata tra amici con poche pretese.

Anna Magistrelli