Voto

8

Foxcatcher – Una storia americana è un momento di svolta personale. Il regista Bennett Miller realizza una piccola perla cinematografica dall’incredibile impatto emotivo; lo spettatore, infatti, si trova disorientato all’interno di un film che è all’apparenza una celebrazione di due grandi della lotta, i fratelli Schultz, e che rivela invece scenari inquietanti e atmosfere sospese che tengono incollate allo schermo.
La forza della pellicola è, paradossalmente, la lentezza narrativa: lunghissime pause di silenzio, dialoghi spesso appena accennati; chi assiste accantona il fastidio iniziale e si lascia sedurre dagli scambi di sguardi tra i protagonisti, dalle dinamiche emotive che s’intessono in un’atmosfera ovattata, surreale.

Merito di tale risultato è senz’altro l’interpretazione dei tre attori protagonisti: un irriconoscibile Steve Carellallontanatosi dal genere comico, si cala perfettamente nel personaggio e recita i panni di John du Pont, un mecenate sempre alla ricerca di approvazione che grazie al denaro attrae sotto la sua ala molti atleti, con la promessa del grande Sogno Americano, ossia vincere le Olimpiadi e ingigantire così l’orgoglio della Nazione. Du Pont sa come muoversi e, utilizzando le più subdole tecniche dell’ars oratoria, manovra a proprio piacimento le decisioni del suo protetto, Mark Schultz, che si trova a lottare contro se stesso, contro la famiglia e contro tutti i principi – umani e sportivi – che fino ad allora aveva abbracciato grazie all’influenza del fratello maggiore Dave.

Gioiello grezzo della pellicola è l’interpretazione di Channing Tatum nel ruolo di Mark: dopo pellicole come Step Up e Magic Mike, l’attore trova ora la sua strada e riesce a convincere per la sua intensità, allontanamndosi da ruoli apprezzati esclusivamente per le – indiscutibili – doti fisiche; nonostante i dialoghi siano ridotti all’osso Tatum riesce a ipnotizzare lo spettatore, incarnando un duro e instancabile lottatore, e contemporaneamente un uomo insicuro, sempre pronto a chiedere consiglio a Dave, cui è morbosamente attaccato.

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Proprio il legame tra i due fratelli impreziosisce la vicenda e si svela in ogni circostanza: emblematica è una delle prime sequenze, in cui i due si affrontano in allenamento e – grazie al brillante lavoro del coreografo Jesse Jantzen che impartisce lezioni agli attori nel periodo precedente alle riprese – svelano movenze coordinate e morbide: una sorta di armoniosa danza, che fin dal principio mostra allo spettatore la complicità fraterna.

Specularmente alla figura di Mark si sviluppa il personaggio di Dave, magistralmente interpretato da Mark Ruffalo: con straordinaria semplicità e pacatezza sprofonda nei cuori degli spettatori, un coach sempre pronto a motivare, una figura quasi paterna che ricopre il fratello di attenzioni e continui abbracci: i modi ossessivi e la postura sempre curva sul fratello, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, non disturbano, ma suscitano empatia e partecipazione nei confronti degli eventi.

Il desiderio di attaccamento e la costante ricerca di un legame emergono anche nella figura stessa di du Pont, diventando una realtà a tratti inquietante: l’uomo, respinto dalla madre fin dall’infanzia e mai veramente cresciuto, sempre mosso da intenti autocelebrativi, cercherà in tutti i modi approvazione e ammirazione, rivendicando più e più volte il suo ruolo di guida di Mark. Ma la ricerca diventerà pura ossessione, portandolo a estreme e irrimediabili conseguenze che lasciano lo spettatore letteralmente a bocca aperta. Miller, esaltando l’elemento di tensione, riesce a colpire in faccia lo spettatore: non si riescono mai a prevedere i pensieri e le azioni di du Pont, personaggio monoespressivo ed emblematico, instabile, quasi angosciante. Ulteriore pregio di una pellicola che mette emotivamente al tappeto, che stringe in una morsa di apprensione e imprigiona in un limbo di disagio. Provare per credere.

Anna Magistrelli