Voto

8

Film intenzionato a dare una voce cinematografica alla Generazione Z, spesso rappresentata tramite personaggi stereotipati narcisisti e narrazioni superficiali, Eighth Grade (Bo Burnham, 2018) affronta con intelligente onestà una storia di per sé banale. Kayla (Elsie Fisher) è una tredicenne che sta per finire le scuole medie; votata come “la più silenziosa” dalla sua classe, trascorre il tempo a scuola perlopiù da sola e cerca un contatto con i suoi compagni solo attraverso i social media. Unico suo alleato è il padre Mark (Josh Jamilton), che trova Kayla meravigliosa, sicuro che abbia tutte le possibilità di diventare una delle ragazze “cool” che lei idolatra da lontano. La tematica dell’isolamento giovanile è diventata un punto centrale dei film che parlano di adolescenza, crescita e maturazione, ma a differenziare Eighth Grade è la sua prospettiva universale, adottata grazie all’empatia del regista verso le situazioni che racconta. La pletora di riferimenti culturali, tra canzoni Disney, Snapchat, frasi come “nessuno usa più Facebook” e lessico giovanile di inizio millennio, è talmente specifica e consapevole che la narrazione acquisisce un respiro universale, oltrepassando i confini di generazione, gender e nazionalità.

Eighth Grade è efficace per via della sua aderenza alla realtà, ma anche per le acute osservazioni che avanza riguardo al ruolo giocato dai social media e dalla self-care nella vita degli adolescenti. Kayla non è bullizzata ma semplicemente esclusa: è timida, non si sente mai a proprio agio e i suoi tentativi di comunicazione sono fallimentari. Ogni sua singola azione, operata o subita, viene appesantita da un estremo e costante senso di mortificazione tipico della preadolescenza, destinato a sopravvivere per decenni nei ricordi di tutti noi. Il film affronta così un discorso molto più ampio, che riguarda il bisogno di autoaffermazione dell’essere umano contemporaneo, tanto da preadolescente quanto da adulto: per essere soddisfatti della propria vita, la società ci convince che non basta essere se stessi. È necessario un lavoro di perfezionamento costante per rispettare il più possibile le aspettative degli altri, ai quali mostrare solo la versione migliore di sé. Un meccanismo che Kayla ha introiettato credendo nel potere del pensiero positivo: se vuoi qualcosa con forza, questo qualcosa accadrà. Espone questa e altre convinzioni tramite clip sul suo canale Youtube – riprodotte all’interno del film -, che sotto al pretesto di essere indirizzate a un pubblico in cerca di suggerimenti si rivelano nient’altro che strumenti di autosuggestione.

La storia è quella di una normalissima adolescente, priva di particolari aspirazioni o qualità intellettive e creative: Kayla è una persona empatica, sensibile ed emotiva, e sono queste le sue “passioni”; come farà a gestire il rapporto tra aspettative e realtà rimane una domanda senza risposta, che prende forma nel disagio del volto di Kayla, ripreso da close up straordinariamente espressivi. Burnham azzecca anche la dimensione comica che incornicia il dramma: dinamiche slapstick, stacchi netti, slow-mo parodici smorzano la tensione prima che lo sguardo torni asciutto e schietto sul disagio della protagonista. Il lato terribile delle dinamiche preadolescenziali arriva in modo acuto e diretto allo spettatore, che attraverso le tragedie e i trionfi di Kayla rievoca i propri.

Pietro Bonanomi