MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso museale cinematografico attraverso i film (in Cartellone o a noleggio); il Feed, che mostra cosa guardano gli altri utenti; il Notebook con notizie, interviste, reportage, approfondimenti; la Comunità, ovvero il social di MUBI integrato a tutti gli altri; i Focus; gli Speciali; le Retrospettive. Ogni giorno viene proposto un nuovo film, che resta visibile per un mese e viene poi sostituito da un altro, in una rotazione continua. Dal 20 maggio 2020, MUBI ha introdotto la sezione Videoteca: una libreria di centinaia di titoli a completa disposizione di tutti gli utenti.
Questo mese abbiamo deciso di avventurarci in uno scavo archeologico di stampo cinematografico, indagando la storia dimenticata del cinema. Riportati alla loro bellezza originale, i titoli che abbiamo selezionato sono ora finalmente disponibili a un grande pubblico grazie a MUBI, dopo anni se non decenni di oblio. Possono essere lavori di grandi registi, come Out 1, gemme provenienti da nazioni di cui spesso ignoriamo l’esistenza, o opere atipiche come The Twentieth Century, che nel marasma di un festival imponente per come la Berlinale andrebbe sicuramente perduto.
The Twentieth Century, Matthew Rankin, Canada, 2019 (5 marzo)
Il cinema canadese riflette da sempre sulla propria memoria storica, su un passato conteso tra il mondo occidentale, influenzato dalla presenza francese, e quello nativo, più spirituale e legato al territorio. In The Twentieth Century l’epopea del Novecento canadese viene trasfigurata nell’assurda sfida del protagonista – ovvero dell’essere umano – contro il tempo, adottando un taglio alienante e iconoclasta in cui si uniscono con sorprendente semplicità il cinema etnografico degli Heritage Minutes (una serie di corti sulla storia del Canada) e un’estetica futuristica e rètro che strizza l’occhio all’opera del conterraneo Guy Maddin. Tuttavia, The Twentieth Century non può essere inserito nel genere storico in senso stretto: lo stesso regista descrive il proprio progetto non tanto come una rievocazione ma come una recita scolastica, in cui non importa a nessuno la fedeltà ai fatti (ovvero la scalata politica William Lyon Mackenzie King, primo ministro canadese durante la Seconda guerra Mondiale), negando i canoni del racconto storico mainstream per abbracciare il semplice quanto camp mondo fantapolitico della letteratura young adult. Il risultato è un’opera buffa che mette alla perlina la classe dirigente del Paese. Gli accadimenti reali, infatti, vengono talmente defomati da risultare quasi indecifrabili, smarcando così il film da ogni accusa di deformazioni o falsi storici. Anzi, la memoria nazionale viene sfruttata come materia prima da plasmare per la costruzione di un mondo alternativo quanto alienante, una realtà parallela emancipa The Twentieth Century da una ristretta rilevanza nazionale: non solo il regista gioca con il passato del mondo, storico e cinematografico, ma anche con il suo futuro.
The Legend of the Stardust Brothers, Macoto Tezuka, Giappone, 1985 (18 marzo)
Quando Macoto Tezuka, figlio del noto fumettista Osamu Tezuka, frequentava ancora le lezioni alla scuola di cinema e aveva girato giusto qualche cortometraggio di carattere sperimentale, decise di realizzare per scherzo la colonna sonora di un film inesistente: un racconto in musica delle disavventure di un duo improbabile trasformato da un’etichetta discografica in un popolarissimo gruppo synth-pop. Qualche anno più tardi, questo bislacco progetto venne trasposto al cinema, diventando The Legend of the Stardust Brothers. Nonostante il fallimento commerciale del film, l’opera divenne in Giappone un vero e proprio cult, circolando nelle nicchie tramite videocassette legali e non, mentre al pubblico occidentale fu completamente precluso fino a quando l’etichetta Third Window non decise di curarne il restauro e la distribuzione nel febbraio 2020. Riprendendo la forza satirica dei lavori contemporanei di Jūzō Itami, Tezuka ribalta il mondo dello spettacolo giapponese ma senza distruggerlo completamente: il film trasuda anzi un amore sconfinato per la creatività con cui le label cercano di donare unicità ad artisti la cui carriera sarebbe altrimenti finita dopo un album o due. Queste sfortunate quanto eroiche figure dello showbiz sono infatti le protagoniste del film, al pari della scenografia tutta neon e payette. Se volete scoprire l’underground artistico giapponese e le dinamiche dell’industria musicale nazionale, dallo strapotere del city pop all’emergere delle boy band pop, questo film ne restituisce un quadro attraverso una continua invenzione visiva, che dall’animazione finisce per citare i videoclip patinati americani.
The Girl, Márta Mészáros, Ungheria, 1968 (22 marzo)
Márta Mészáros, insieme a Kira Muratova e Larisa Shepitko, è una delle pioniere del cinema sovietico del secondo Novecento, nonché la prima regista nella storia del cinema ungherese. Il suo percorso artistico inizia col documentario, ma i suoi maggiori successi sono opere di finzione narrativa, come l’Orso d’oro alla Berlinale nel 1975 Adozione (giù proposto da MUBI qualche mese fa). The Girl, l’esordio narrativo della regista, ha infatti molto in comune con Adozione: le protagoniste, rappresentate con un approccio di stampo quasi antropologico, sono in entrambe donne sole, costrette a vivere in un mondo politicamente e socialmente ostile. Prendendo spunto dall’esperienza autobiografica della regista, infatti, The Girl mette al centro i cambiamenti nella vita di una di loro: una ragazza orfana cresciuta in un piccolo villaggio rurale, che da un giorno all’altro si ritrova nel cuore pulsante di una caotica città, arrivando a mettere in discussione la propria visione del mondo e aprendosi poco alla volta alle possibilità offerte dal nuovo contesto. Nel suo caso, come in quello della co-protagonista, la figura femminile finisce succube di un sistema di prevaricazione, ma se nel mondo agreste queste dinamiche di potere appaiono manifeste, nei contesti cittadini moderni e teoricamente progressisti tutto è più torbido e sfuggente. Come già dichiarato da Pier Paolo Pasolini in quegli stessi anni, infatti, la rivoluzione sessuale non si rivela altro che un mero strumento per controllare le nuove generazioni e inibire il mondo femminile rispetto a un’emancipazione non solo sessuale, ma anche sociale e politica.
Gushing Prayer, Masao Adachi e Haruhiko Arai, Giappone, 1971 (24 marzo)

Dopo le ampie retrospettive su Straub/Huillet e Yuzo Kawashima, MUBI ne presenta un’altra altrettanto imperdibile, incentrata questa volta sui pink film prodotti dalla leggendaria Keiko Sato – che per tutta la sua carriera operò sotto pseudonimo maschile -, opere posizionate tra l’erotico, l’arthouse e il pornografico. La selezione di quattro titoli proposta da MUBI offre un assaggio di questo genere di film al limite del mostrabile – per ovvi motivi non molto conosciuti in Italia. Ma sarebbe sbagliato considerare questi lungometraggi solamente come prodotti per un pubblico alla ricerca di un erotismo fine a se stesso: la libertà offerta dalle case di produzione coinvolte – in virtù soprattutto della nascita di filoni di genere come il Roman Porno della Nikkatsu e la Pinky Violence della Toei – non solo ha garantito una libertà di espressione e rappresentazione impensabile nel panorama produttivo mainstream, ma ha anche contribuito alla nascita di un fervente panorama cinematografico underground. Atsushi Yamatoya, regista di Sex Doll of the Wastelands (1967) fu infatti un assiduo collaboratore di Seijun Suzuki; mentre Kan Mukai, autore di Blue Film Woman (1969) divenne uno dei pilastri creativi del genere, realizzando più di 200 film e producendone altrettanti. Gushing Prayer è il titolo di questo filone forse più conosciuto in occidente, sopratutto poiché diretto dall’esplosivo Masao Adachi proprio nello stesso anno di Armata Rossa – PFLP: Dichiarazione della guerra mondiale, film con cui il regista annunciava il suo ritiro dalle scene per collaborare col partito nazionale di estrema sinistra, l’Armata Rossa Giapponese, con esiti decisamente fallimentari. Prima di questo manifesto bellico d’addio, i film di Adachi rappresentavano la perfetta unione tra l’impegno politico dei gruppi della sinistra extraparlamentare e le schegge della rivoluzione sessuale, arrivate in Giappone nel ’68 – messe in scena anche da Koji Wakamatsu, che racconterà la vicenda dell’Armata Rossa Giapponese in United Red Army (2007). Conoscere il genere dei pink eiga è inoltre vitale le accedere alle opere di registi contemporanei fondamentali, come Sion Sono o Takashi Miike, che guardano con particolare interesse alle possibilità offerte da questo sistema produttivo underground.
Céline e Julie vanno in barca, Jacques Rivette, Francia, 1974 (26 marzo)
Il fallimento o la completa riuscita del progetto Out 1 dipendono dai punti di vista. Ma è innegabile il suo impatto sul successivo Céline e Julie vanno in barca, con i suoi personaggi che si inseguono in una Parigi sospesa tra la realtà documentaristica memore di Jean Rouch e la finzione narrativa cara alla Nouvelle Vague. Fin dalle prime sequenze, Céline e Julie si rincorrono in un mondo sospeso che cita direttamente Alice nel paese delle meraviglie di Carrol e sembra perennemente sul punto di crollare come in Parigi ci appartiene (1961). Da questo incontro scaturiscono una serie di segmenti in cui la sottile linea tra immaginazione e realtà si fa sempre più nebulosa e confusa. Come unico punto fermo, seppur inconsapevolemnte, rimangono le protagoniste, che incarnano i due poli di questa dicotomia: Julie è l’assistente di un mago, mentre Céline è una bibliotecaria, la ragione a confronto con l’impossibile. Rivette, da mago novello, gioca così con il suo pubblico, cercando di confonderlo e spiazzarlo, senza però respingerlo al di fuori del film. Sperimentalmente più moderato di Out 1 – destinato all’oblio distributivo -, Céline e Julie vanno in barca è una tappa essenziale per comprendere fino in fondo il totale rinnovamento che negli anni Settanta colpì la Nouvelle Vague. Se Truffaut riscopre il découpage classico e Godard inasprisce le tendenze anti narrative è perché Rivette ha rinnovato non solo il proprio cinema, ma anche il linguaggio comunemente utilizzato nel lungometraggio di finzione, piegando tutti i limiti imposti dalla consuetudine.
Out 1 – Noli me tangere, Jacques Rivette, Francia, 1971 (Videoteca)
Opera omnia di Rivette, Out 1: Noli me tangere è rimasto per anni imprigionato da una mancata distribuzione, che ha contributo alla creazione di un alone di mistero intorno al film. Concepita come una serie televisiva e rifiutata dall’emittente a riprese ormai ultimante, il fluviale Out 1 originario scompare per decenni, ripresentandosi solamente negli anni Novanta in diverse versioni figlie di montaggi postumi o materiale frammentario. Negli anni successivi, molti studiosi cercano di ricomporre l’opera nella sua forma originale, ma l’esito sono solo ulteriori versioni, tutte diverse per durata e montaggio. Quella resa disponibile da MUBI è quella definitiva finora: 774 minuti di durata divisi in otto episodi in cui Rivette, ispirandosi ai grandi classici del serial francese come Fantômas (1913-1914) o Les Vampires (1915), mette in scena le vicissitudini di due gruppi formati da giovani parigini alle prese con le prove per due spettacoli paralleli tratti dalla tragedia greca (in particolare il Prometeo Incatenato di Eschilo). Uno di loro, il misterioso gruppo dei Tredici, cercherà di scombinare la quotidianità di tutte le persone coinvolte, in una progressiva dispersione della finzione cinematografica e di graduale messa in discussione dei personaggi, del ruolo dello spettatore e del concetto di intrattenimento. Tutte le regole del cinema istituzionale, dal ritmo alla chiarezza narrativa, vengono smantellate non solo attraverso una sceneggiatura ermetica, ma anche tramite lunghe e sfiancanti sequenze di improvvisazione teatrale fatte di versi e urla. Più che a un film, preparatevi a un’esperienza audiovisiva unica nel suo genere.
Perfumed Nightmare, Kidlat Tahimik, Filippine, 1977 (Videoteca)
Dalla seconda metà del Novecento nei paesi assoggettati fino a pochi decenni prima al colonialismo occidentale si sviluppa una forza creatrice che porta alla nascita dei cinema nazionali forti e radicali, in risposta allo strapotere del cinema americano. Nelle Filippine cadute sotto la dittatura di Ferdinand Marcos, questo prende la forma di Perfumed Nightmare, film incentrato sul rapporto tra il primo mondo industrializzato e il terzo, ben lontano da una libertà economica vera e propria. Quelli messi in scena non sono solo due modelli di sviluppo differenti, ma anche modi di vivere agli antipodi: quello ancorato ai campi e alle foreste e quello costruzioni ininterrotte della metropoli. Un’unione in armonia è impossibile: i più ricchi tenderanno sempre allo sfruttamento dei più poveri. Ed è in corso una seconda ondata colonizzatrice, che trova negli Stati Uniti i massimi promotori, capaci di conquistare con l’economia e la società dello spettacolo non solo il terzo mondo fatto di palafitte ma anche la vecchia e stanca Europa.
Racconti immorali, Walerian Borowczyk, Francia, 1974 (Videoteca)
Senza Walerian Borowczyk non esisterebbe Bertrand Mandico, e neanche tutta quella categoria di artisti audiovisivi che hanno cercato di svincolare l’erotismo e la rappresentazione della sessualità prima dal cinema di exploitation, poi da quello pornografico mainstream. Durante la sua permanenza a Parigi le sue attenzioni si spostano verso la fiction, ed è con Racconti immorali che Borowczyk ottiene un enorme e inaspettato successo di pubblico, nonostante gli attacchi provenienti dalla critica americana – che lo porteranno a rispondere girando i successivi La Bestia (1975) e Tre donne immorali? (1979). In Italia il film venne pesantemente rimaneggiato dalla censura e fu totalmente irreperibile fino a oggi su MUBI, dove viene presentato nella sua versione restaurata e priva di tagli. Rifacendosi alla tradizione delle letteratura erotica, come Thérèse philosophe di Jean-Baptiste Boyer d’Argens, Borowczyk spezza la narrazione in quattro episodi diversi sia per lo stile che per le coordinate spaziotemporali, uniti solo da una comune tensione al piacere. Si passa così da una descrizione quasi arcadica del primo amore (La marea) alla messa in scena della prevaricazione della violenza in Erzsébet Báthory. Da un’estetica che ricorda i racconti morali di Eric Rohmer alla ricchezza e ricercatezza degli episodi storici, in cui il corpo viene accuratamente posizionato in set di ammaliante bellezza.
Davide Rui
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