MUBI è una cineteca online dove guardare, scoprire e parlare di cinema d’autore proveniente da tutto il mondo. La selezione dei titoli è affidata a una redazione di esperti del settore, che si occupano di costruire un vero e proprio percorso museale cinematografico attraverso i film (in Cartellone o a noleggio); il Feed, che mostra cosa guardano gli altri utenti; il Notebook con notizie, interviste, reportage, approfondimenti; la Comunità, ovvero il social di MUBI integrato a tutti gli altri; i Focus; gli Speciali; le Retrospettive. Ogni giorno viene proposto un nuovo film, che resta visibile per un mese e viene poi sostituito da un altro, in una rotazione continua. Dal 20 maggio 2020, MUBI ha introdotto la sezione Videoteca: una libreria di centinaia di titoli a completa disposizione di tutti gli utenti.
La dimensione del viaggio è una componente indispensabile nelle nostre vite. E durante questo 2020 disastroso è stato impossibile non rendersene conto, quando persino azioni quotidiane e spostamenti minimi, come andare a fare la spesa, sono diventati eventi cruciali della settimana, spesso carichi di ansie e paure. Nella speranza di un 2021 migliore, MUBI a gennaio propone una serie di titoli che si concentrano sul concetto poliforme del viaggio. Dal vagabondaggio nei deserti cinesi di Ashes of Time alla complessa e dolce macchina del tempo imbastita da Bergman. Viaggio inteso non solamente come movimento, ma come idea carica di un significato più intimo e transnazionale, che travalica i confini e unisce i popoli. E in questo, il cinema, è uno degli strumenti più potenti che abbiamo.
Ashes of Time, Wong Kar-wai, Hong Kong, 1994
Ashes of Time è l’emblema del cinema come viaggio, per via sia dei contenuti visionari, sia per la travagliatissima vicenda produttiva, che ancora oggi, distanza di anni, continua a influire sulla sua fruizione. La versione del film oggi in circolazione è infatti quella redux, realizzata dallo stesso Wong Kar-wai nel 2008, in cui alcune sequenze sono state accorciate e modificate in post produzione a causa del decadimento delle pellicole originali. La lunga odissea di Ouyang Feng, antagonista del classico wuxia cinese The Legend of the Condor Heroes, non sembra mai avere fine. Uscito nello stesso di Hong Kong Express (1994), il film con cui Wong Kar-wai ottenne il successo internazionale, Ashes of Time racconta la lunga odissea di Ouyang Feng, antagonista del classico wuxia cinese The Legend of the Condor Heroes, attraverso una commistione tra il cinema d’arti marziali cinesi e l’esistenzialismo di Antonioni, con l’intento di rivolgersi a un pubblico popolare. Si dirige in questo senso anche la scelta di scomporre il movimento dell’azione nelle parti che lo compongono, esaltate dall’abbondante uso dei fermo immagine, coniugando così la tradizione visiva del cinema popolare asiatico alle innovazioni già storicizzate delle Nouvelle Vagues europee.
Miracolo a Le Havre, Aki Kaurismäki, Finlandia, 2011
Raccontare al cinema la crisi migratoria che sta mettendo a dura prova l’intera esistenza della comunità europea non è semplice, e molte delle opere sul tema sono risultate superficiali, prodotti che si limitano a sfruttare gli elementi melodrammatici della questione al solo scopo di generare una reazione emotiva nel pubblico, proponendo un’estetica che riprende le atmosfere del primo neorealismo senza tuttavia rinnovarne la matrice. Ma Aki Kaurismäki fa tutt’altro. Ribaltando gli schemi narrativi e visivi, propone un’opera sospesa nel tempo, in cui i personaggi assumono una tridimensionalità sfaccettata e stratificata. Con i suoi toni pastello, Miracolo a Le Havre guarda a un passato in cui tutto sembrava più facile, ma affronta anche di petto il presente, indagando un problema oggi più attuale che mai. L’odissea marittima dei migranti africani partiti dal porto di Le Havre e diretti in Inghilterra raccontata dal film può essere vista infatti come un parallelo di quel viaggio nel Mediterraneo che conduce dall’Africa all’Europa. Questo sistema di rispecchiamenti fortifica la metafora su cui si regge l’intero impianto narrativo, che a prima vista potrebbe sembrare una favola moderna, ma che in realtà nasconde una profondità inedita al cinema.
A Family Tour, Ying Liang, Hong Kong, 2018
Un’opera imperfetta ma che non lascia indifferenti. Il nuovo lungometraggio di Ying Liang, regista costretta all’esilio a Hong Kong per avere realizzato un film su un condannato a morte (When Night Falls, 2012), racconta un altro pezzo della sua storia autobiografica, già in parte narrata da A Family Tour (Ying Liang, 2018). Il film si incentra sulla partecipazione della cineasta a un festival di Taiwan, dove ha potuto rincontrare la propria madre. Ma il lungometraggio non si limita a mettere in scena il dolente incontro fra due donne, ciascuna emblema di due fasi diverse e contraddittorie della storia recente cinese, e si allarga a riflettere sull’importanza emotiva, politica e simbolica dei luoghi. Se oggi in Europa le frontiere e le nazioni sembrano essersi consolidate, come esito di un secolo sanguinoso e sofferto, il Novecento, lo stesso non si può dire della Cina e dei paesi che la circondano. La messa in scena del film si fa allora metafora del contrasto tra l’identità degli stati e la volontà di annullarla da parte di un’entità centralizzata, che da anni opera per privare i cittadini di diritti civili e di espressione. Ponendosi sulla scia di lavori come il recente No.7 Cherry Lane (2019) o il classico Made in Hong Kong (1997), A Family Tour cerca ancora una volta di puntare i riflettori e accrescere la consapevolezza su un mondo per noi occidentali ancora troppo lontano, ma più in fermento che mai.
Unsane, Steven Soderbergh, USA, 2018
Tra film a basso budget, blockbuster, serie televisive di successo e remake di capolavori del cinema europeo, la filmografia di Steven Soderbergh è estremamente poliedrica, specchio di un regista che raramente si è preso una pausa, cercando costantemente di rinnovare il proprio repertorio attraverso le tecnologie più innovative. Unsane, proprio come a High Flying Bird (2019), è un thriller atipico girato interamente con un iPhone: una sperimentazione e insieme una provocazione diretta a quegli autori che vedono ancora con sospetto l’avvento del digitale. Il lungometraggio sfrutta il nuovo medium per raccontare una storia di pazzia progressiva, in cui l’invadenza sempre più pervasiva della tecnologia viene associata all’enigmatica persecuzione da parte di uno stalker. I limiti imposti dalla sfida tecnica – come la profondità di campo estremamente limitata -, vengono ribaltati in opportunità da Soderbergh, che li sfrutta per trasmettere il senso di oppressione provato dalla protagonista, schiacciata da una minaccia del passato che viene amplificata dai moderni mezzi di comunicazione. Come spesso accade online, realtà e finzione si fondono e sovrappongono, finché comprenderne i confini non diviene complesso, se non impossibile.
Fanny e Alexander, Ingmar Bergman, Svezia, 1982
L’ultima opera di Ingmar Bergman è un sontuoso viaggio nel tempo alla ricerca di un’infanzia perduta e rimessa in scena, posizionandosi in antitesi diretta rispetto al dolente realismo della produzione precedente, come Un mondo di marionette (1980). Realizzato per la televisione svedese, al pari della maggior parte degli ultimi lavori del regista, il film proposto da MUBI è invece nella sua versione cinematografica: una riduzione di circa due ore delle cinque totali che mantiene inalterata la comprensione del film e la sua essenza, ovvero la cura meticolosa con cui Bergman ricostruisce la propria infanzia. Ecco che il cinema assume la funzione di una macchina del tempo sensoriale, capace di materializzare quello che era solo un ricordo sbiadito, di restituire l’immagine residua del passato. Per questo motivo, l’opera fu criticata per via di questo taglio autoreferenziale, suscitando lo sdegno di Lars Von Trier, ma è impossibile non amarla per la perfezione visiva che straripa da ogni inquadratura, girata davvero come se fosse l’ultima.
100 Years of Adolf Hitler, Christoph Schlingensief, Germania, 1989 (Videoteca)
Christoph Schlingensief è una figura assolutamente anarchica nel panorama cinematografico europeo attuale. Con le sue opere farebbe impallidire la Troma, sferzando satire e critiche pungenti sulla società occidentale. 100 Years of Adolf Hitler, uno dei suoi film più noti, si distacca però dai soliti toni dissacranti e adotta un approccio claustrofobico, l’ideale per raccontare gli ultimi giorni di vita di Adolf Hitler nel bunker. Rifuggendo il taglio storico, il film rappresenta fatti e personaggi nelle loro forme più crude ed essenziali, dipingendo figure che un tempo comandavano una delle nazioni più temibili del mondo come topi rinchiusi in spazi ristretti e oscuri. Gradualmente, le distinzioni sociali che nel mondo esterno regolavano il sistema nazista vengono meno, facendo riaffiorare tutte le pulsioni animalesche insite nell’umano e, nella visione del regista, alla base dell’ascesa del Partito Nazionalsocialista. Il risultato è un film crudo e cinico, che colpisce e turba profondamente, restituendo il quadro di una Germania affascinata dall’edonismo americano e sempre meno consapevole del proprio passato.
Cento e una notte, Agnès Varda, Francia, 1995 (Videoteca)
Il 1995 è un anno estremamente importante: il cinema compie cento anni di vita, oltrepassando l’aspettativa di vita massima di un essere umano. In tutto il mondo si cerca di sintetizzare questa breve quanto corposa vita in vari modi: restauri, documentari, film su commissione. In Italia, ad esempio, la televisione pubblica viene monopolizzata da oltre cento ore di proiezioni non stop curate da Enrico Ghezzi e il team di Fuori Orario. In Francia Jean-Luc Godard propone una continuazione del mastodontico Histoire(s) du cinéma (1988) con Deux fois cinquante ans de cinéma français (1995). Agnès Varda invece, decide di ribaltare tutte queste celebrazioni. Al ricordo preferisce la messa in scena, e realizza di un pastiche comico di cento anni di cinema. La realtà si unisce alla finzione, e i grandi maestri del passato vengono rievocati fantasmi, incluse le leggende ancora viventi – Robert De Niro, Hanna Schygulla, Jeanne Moreau, Isabelle Adjani, Jean-Paul Belmondo, Marcello Mastroianni e moltissimi altri. Portando avanti la riflessione elaborata dalla filmografia coeva di Agnès Varda, il film tematizza il rapporto oscuro tra immagini e tempo, qui declinato nella relazione tra film, persone e realtà.
Agnès Varda: From Here to There, Agnès Varda, Francia, 2011 (Videoteca)
I documentari di Agnès Varda non si sono mai retti su una struttura ben definita e organizzata, ma su un tema principale aperto e malleabile, disponibile a cambiare a seconda dei personaggi incontrati lungo la realizzazione, delle coincidenze e del casi del destino. Ma Agnès Varda: From Here to There si spinge oltre, liberandosi anche dalla presenza di un tema portante – e per questo è considerata una delle migliori espressioni documentaristiche della regista. Finanziata dalla televisione francese, l’opera è come un diario di viaggio costituito da una serie di incontri in giro per il mondo, spaziando dall’arte contemporanea all’attualità, fino al mondo del cinema. Filmato e commentato in diretta dalla stessa protagonista, il film è realizzato con un’essenzialità estetica che evidenzia le scelte autoriali di Varda: una maggiore ricerca della bella immagine avrebbe sviato l’attenzione dai temi trattati, rompendo quel clima di familiarità costruito con cura puntata dopo puntata.
Davide Rui
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