Voto

8

Ildikò Enyedi trae linfa dalla poesia della connazionale Ágnes Nemes Nagy e crea una love story singolare e convincente. Maria (Alexandra Borbély) ed Endre (Geza Morcsányi), persone dal cuore solitario e dal carattere difficile, sono dipendenti di un macello ungherese, l’una addetta al controllo qualità della carne e l’altro dirigente economico. Un caso fortuito li porta a scoprire un fatto eccezionale: entrambi vivono ogni notte lo stesso sogno, unica valvola di sfogo che mitiga una vita difficile e insoddisfacente.

Punto di forza della regia è la calibratura tra i momenti di fuga onirica, raccolti in un impalpabile panorama innevato dove i due si muovono trasfigurati, calati in panni animali, e le ripetute macchinosità di quella che è la realtà di tutti i giorni, appesantita da una consuetudine lavorativa alienante. I luoghi d’azione sono ridotti e perlopiù chiusi: il macello, la casa di Endre, la casa di Maria. Le riprese all’aria aperta e lontano dai tre fulcri narrativi sono invece centellinate e permettono alla pellicola di mantenere una compattezza, pur minacciata dalle inquadrature ravvicinate e introspettive. La macchina da presa indugia così su particolari di corpi e oggetti, che assumono una forte valenza liricheggiante, tra polisemia d’immagine e forza di suggestione.

Si delinea così un film forte e coerente, che perde terreno solo nelle ultime battute, quando l’accelerazione narrativa rompe l’incanto, piegatp dalla necessità di chiudere la parabola del racconto, prima rarefatto in un gioco di rincorsa e scontro tra corpo e mente (o anima, per citare il titolo), e serrare il cerchio.

Ambrogio Arienti