Il mito primordiale del cowboy che cavalca verso Ovest, strappando terre ai nativi americani e portando con sé la dura mano della civilizzazione adempiendo al manifest destiny, basta a descrivere quasi in toto lo spirito americano più originario, in tutte le sue derive tendenziose e falsificatrici. In quella rappresentazione, infatti, troviamo già manifesti l’imperialismo, il machismo, il white power e le velleità belliche di un popolo costituitosi attraverso l’oppressione e l’oscuramento. Si tratta di processi sistematici vivissimi ancora oggi, che trovano origine proprio nell’immagine embrionale del cowboy, protagonista di un whitewashing su larga scala avviato sin dagli albori di Hollywood. Da Sentieri Selvaggi di John Ford (1956) – tratto dall’omonimo romanzo di Alan Le May in cui il personaggio poi interpretato da John Wayne sarebbe ispirato al cowboy afroamericano Britt Johnson, al più recente The Lone Ranger (2013) prodotto dalla Disney e al centro di polemiche proprio per la scelta di Johnny Depp nel ruolo che nella storica serie televisiva da cui è tratto il film fu del nativo americano Jay Silverheels, la storia del genere è puntellata di cowboy bianchi, tutt’al più coadiuvati da personaggi secondari neri (il ruolo di Sidney Poitier in Duello a El Diablo del 1966 è un esempio per tutti).

Sebbene il cinema western degli ultimi dieci anni abbia dato un po’ più di spazio a protagonisti neri – Denzel Washington nel remake dei Magnifici 7 di Antoine Fuqua (2016), Samuel L Jackson in The Hateful Eight (2015) e, pur sempre nel ruolo di uno schiavo, Jamie Foxx in Django Unchained (2012) –, la strada per la ricostruzione di un immaginario corretto e una riappropriazione culturale a lungo dovuta sembra ancora lunga e, per citare Spike Lee, “Imagery is powerful. […] Fuck John Wayne and John Ford”. Secondo un noto articolo dello Smithsonian, infatti, al tempo della conquista del Far West un cowboy su quattro sarebbe stato di colore. Le ragioni storiche di questo dato risiedono nell’alto numero di lavoratori neri impiegati come schiavi nelle piantagioni del sud: in occasione dello scoppio della Guerra di secessione e la partenza per il fronte dei proprietari terrieri, gli schiavi sarebbero stati lasciati soli a gestire mandrie e terreno acquisendo competenze a tutti gli effetti “da cowboy”. Al ritorno dal fronte e in seguito all’abolizione della schiavitù, i possidenti bianchi rimasti privi di manodopera non avrebbero avuto altra scelta che assumere regolarmente lavoratori neri ora liberi ed esperti. Così nascono i primi black cowboys, poi moltiplicatesi anche negli Stati Uniti centrali.

Ma se non nell’immaginario collettivo, dove trovare loro tracce? Oggi si trovano nella sottocultura degli urban cowboy di alcune delle grandi città statunitensi, tra cui la più ampia di Philadelphia, su cui il nuovo film Netflix Concrete Cowboy apre uno squarcio inaspettato. Nei primi del ‘900, infatti, con l’abbandono dei ranch e della vita agricola, alcune delle comunità di black cowboys si sarebbero spostate nelle grandi città del nord in cerca di nuove opportunità lavorative e qui sarebbero rimaste, preservando la propria unicità ai margini della società. Tratto dal romanzo Ghetto Cowboy di G. Neri, il film di Ricky Staub descrive la ricostruzione di un rapporto padre-figlio (Idris Elba e Caleb McLaughlin) nel quadro della comunità del Fletcher Street Urban Riding Club. Il club sportivo rappresenta il residuo di un’ampia proliferazione di urban cowboy nel territorio di Philadelphia, con gli anni decimata dalla gentrificazione e dall’assenza di fondi. Nel quartiere di Strawberry Mansion, nel nord della città, le stalle di Fletcher Street sono tra gli ultimi baluardi di una cultura preziosa quanto sconosciuta, in drastica opposizione tanto all’imborghesimento delle aree urbane, quanto alla microcriminalità da strada dilagante nella periferia della città. Insediatesi in Pennsylvania da oltre un secolo, il black urban cowboy di Fletcher Street accolgono i giovani del quartiere in una comunità cordiale e calorosa, offrendo loro un luogo sicuro dove crescere e imparare a stare al mondo, lontano dai pericoli della strada. Il protagonista Cole, infatti, rappresenta i molti ragazzi che nelle stalle hanno trovato una famiglia (“Home ain’t a place, it’s a fam. That’s what makes us Cowboys” è il mantra del film).

Tanta è la potenza di questa sottocultura che le vicende di Cole e di suo padre Harp passano in secondo piano, lasciando emergere la forza di testimonianze come quella di Paris, aka Jamil Prattis, vero rider di Fletcher Street, che racconta dell’omicidio del fratello nel corso di una sparatoria, o come quelle degli anziani rider riunitesi intorno al fuoco la sera. Si tratta di un’autenticità documentaria (reali le rider e i rider, come reali sono le location del film) che oltrepassa i confini finzionali di Staub e le parole di Neri, facendo scoprire allo spettatore un mondo nuovo ed estremamente affascinante racchiuso nelle immagini ossimoriche di un manipolo di cowboy che cavalca fianco a fianco ad un autobus di linea, sullo sfondo dei grattacieli di Philly. La fotografia calda anima gli ambienti bui di Fletcher Street, schiudendo i segreti dei suoi abitanti e le occasionali sfocature dell’obiettivo della macchina da presa danno la sensazione di inoltrarsi in terre sconosciute: è proprio il fascino della scoperta, infatti, il vero motore del film, pronto a ricordarci quante altre sottoculture stanno resistendo con orgoglio alla tendenziosità delle rappresentazioni dell’ultimo secolo.

Giorgia Maestri