Il prevedibile trionfo di Parasite agli Oscar 2020 ha risvegliato l’interesse nei confronti del cinema asiatico; cinema che aveva già catturato il pubblico italiano con un trend nei primi anni Duemila, quando i nostri schermi sono stati letteralmente invasi da lungometraggi provenienti da Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Cina. La rinnovata popolarità di queste cinematografie nazionali, per quanto diverse tra loro, risulta oggi trainata da una nuova tensione comune: la volontà di rivolgersi e parlare a un pubblico globale. Se il cinema del triangolo Cina-Taiwan-Hong Kong negli anni Novanta era infatti caratterizzato da una particolarissima ricerca visiva, che rispecchiava il tessuto urbano delle grandi metropoli di questi paesi, e sperimentava nuove soluzioni estetiche tramite elementi quali l’aspect ratio e il rallenti, negli ultimi anni le produzioni di quell’area geografica sembrano essersi uniformate a uno standard internazionale ben preciso, dettato dall’egemonia americana.

Questa tendenza, dovuta in parte alla formazione stessa di registi e maestranze direttamente negli Stati Uniti, specialmente per quanto riguarda le seconde generazioni, sembra però essere ricercata anche dai cineasti che operano in loco. Il dominio del cinema americano sul mercato globale, infatti, fa sì che uniformarsi a quello standard sia l’unica strada percorribile per rendere i propri film esportabili e, di conseguenza, ambire a un successo più ampio e capillare, che superi i confini nazionali. Così, ciò che rendeva i cinema di Taiwan e Hong Kong unici e peculiari risulta appiattito da una conformità tanto nella forma quanto nel contenuto, rendendo tutto quanto più simile possibile all’impacchettamento a cui sono sottoposte la maggioranza delle produzioni Netflix. Un processo immediatamente visibile in due opere uscite negli ultimi mesi. Little Big Women di Joseph Hsu (Taiwan, 2020) – disponibile su Netflix – e Dead Pigs di Cathy Yan (Cina, 2018) – in catalogo su MUBI.

Little Big Women segue il canovaccio del melodramma famigliare classico, in cui un lutto, in questo caso la perdita di un padre assente, scombina un assonnato contesto famigliare pervaso sa menzogne e verità non dette. L’unico elemento di spicco del film, che lo differenzia dalla miriade di lavori simili come Love Education di Sylvia Chang (Cina-Taiwan, 2017) è il peso centrale conferito ai personaggi femminili e alle loro dinamiche interpersonali, in particolare alla figura della madre e delle proprie tre figlie, cresciute senza una figura paterna in un ambiente familiare interessato solo alle apparenze. Ma la continua e ridondante ricerca della citazione dei grandi maestri del nuovo cinema di Taiwan, ben lontani nel tempo e nell’estetica rispetto al taglio mainstream e internazionale del film, rende Little Big Women un’opera marcatamente derivativa, privandola di contenuto e originalità: l’odissea della classe media e il rapporto con la morte delle nuove generazioni sono emulate da Yi Yi – e uno… e due… (2000) di Edward Yang; mentre la frammentazione narrativa utilizzata per introdurre singolarmente i membri della famiglia ricalca la struttura cinematografica di un’altra opera del regista, A Brighter Summer Day (1991); e compare anche una citazione al cinema di Wong Kar-wai, nella forma di una singola inquadratura a rallentatore che vorrebbe conferire maggiore profondità alla sequenza ma finisce per risultare solo pretenziosa.

Al contrario, Dead Pigs riesce a omaggiare i maestri del passato, in questo caso Jia Zhangke (presente nei credit nelle vesti produttore), rinnovando i modelli di partenza e riuscendo a guardare al di là della produzione nazionale. Il nuovo cinema cinese degli anni Novanta da cui Cathy Yan prende parecchi spunti, nasce proprio come risposta a una proposta tradizionale percepita ormai come stantia: i cineasti emergenti dell’epoca avevano come riferimenti il post-Neorealismo italiano e la Nouvelle Vague francese e giapponese, ed è da queste correnti che traggono la loro forza iconoclasta e il loro di rottura nei confronti del “cinema dei papà”, senza mai ridurre le loro opere a mera copia stilistica e sterile dei modelli.

Il ricorso al passato per porre le basi per la costruzione di un modello futuro non è una prerogativa esclusiva del cinema asiatico, ma una delle principali forze motrici del cinema postmoderno (dagli anni ’70 in poi); basti pensare ad autori cinefili come Tarantino fino e a correnti come la nuova scuola autoriale francese, che pesca a piene mani da diverse epiche del cinema italiano. Per orientarvi in questa rete intricata di connessioni, reference, influenze e derive, il catalogo e la videoteca di MUBI possono diventare uno strumento affidabile e completo per costruire percorsi tematici e cronologici che permettono di comprendere l’evoluzione storica che ha plasmato il nuovo cinema asiatico per come lo vediamo oggi.

Il documentario Flowers of Taipei – Taiwan New Cinema di Chinlin Hsieh (2014), per esempio, delinea, attraverso una serie di interviste, la storia del movimento del nuovo cinema taiwanese, raccontata direttamente dai protagonisti e da coloro che hanno dovuto fare i conti artisticamente con queste nuove sperimentazioni. E diversi registi cardine di questa onda creativa sono ancora in attività, come Hou Hsiao-hsien, che col suo ultimo lavoro, The Assassin, sviluppa un’acuta riflessione sul cinema di genere cinese di cui esalta la grandiosità visiva, meritando il premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 2015. The Skywalk Is Gone di Tsai Ming-liang (2002) è invece un cortometraggio che condensa tutte le principali ossessioni del regista, e Xiao Wu (1998) esordio restaurato del regista Jia Zhangke, permette di individuare i punti di connessione tra le nuove cinematografie che si sono diffuse nella Cina di inizi anni Novanta e le nuove wave dei giovani registi di oggi.

Davide Rui