Voto

8

Guadagnino prende le mosse dall’omonimo romanzo di André Aciman e il successivo adattamento cinematografico di James Ivory ma sceglie di abbandonare la riviera ligure per spostarsi nella bassa bergamasca attorno a Crema, sverginando sullo schermo un territorio dall’irresistibile e indomito fascino. È qui che, come De Sica con Il giardino dei finzi contini, Guadagnino e il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom trovano il loro locus amoenus di fruscii, ruscelli e corse in bicicletta, e fanno sbocciare un amore tremante e intenso, puro e travolgente. I modelli di riferimento sono dichiarati (Visconti su tutti), quasi esposti sfacciatamente nella costruzione di uno spaccato di vita idilliaco, isolato da quei turbolenti anni ’80 che attraversano la villa dei Perlman come aliti di vento, senza intaccare la sua languida atmosfera. E insieme ai corpi accaldati dei personaggi la casa ribolle, vibra, scricchiola, rimbomba, complice dei silenzi di Elio (Timothée Chalamet) e Oliver (Armie Hammer) e di quel loro amore che li accerchia.

Il ritratto cartolinesco seppur curato dell’Italia degli anni ’80 – imperdonabile a un nostro regista –, traboccante di cliché e stereotipi, come la ricetta studiata per fare colpo all’estero (omosessuali, ebrei, campagna italiana, studi umanistici classici, cimeli storici), scompare sotto la potenza carnale, palpabile di una sceneggiatura che se ne frega del cervello dello spettatore e pure del cuore, e si avvinghia direttamente alle sue viscere, senza dargli tregua per giorni interi. Complice la colonna sonora, in particolare le melodie dolcissime di Sufjan Stevens, che sussurrando gridano lo struggimento di un amore prezioso proprio perché straziante. Indimenticabile l’ultimo primissimo piano di Elio, che mentre fissa immobile il fuoco del camino vive una dilaniante esplosione di sentimenti, e li getta addosso allo spettatore come un pugno nello stomaco: una straziante malinconia con cui dovrete fare i conti per molto tempo.

La macchina da presa di Guadagnino si muove leggiadra, priva di ammiccamenti o malizie alla Lolita, e senza alcun intervento né edulcorante lascia che il desiderio nasca, frema, temporeggi, tentenni, cresca, si manifesti (con un delicatissimo piano sequenza che distoglie lo sguardo per rispettare la delicatezza del momento), si nasconda, si allontani per poi riavvicinarsi, esploda e lotti contro lo scorrere inesorabile del tempo. Chiamami col tuo nome è un film sull’amore: un amore prima sublimato nelle inquadrature dal basso dell’apollineo Oliver, poi cercato negli sguardi, nei sospiri ansimanti, nei tocchi fuggevoli di entrambi e infine esaltato come rapporto fisico, che raggiunge l’estasi con il godimento della carne. Ma non solo: Guadagnino indaga la scoperta di un corpo curioso, che per le prime volte sperimenta le pulsazioni del desiderio, celebrando l’abbandono più innocente alla passione erotica. Un amore che la macchina da presa non osa ritrarre, timorosa di contaminarlo, e tutto accade nell’intimità del fuori campo. Anche perché, per un amore come il loro, non potrebbe essere altrimenti.

Benedetta Pini