Il giorno di natale del 1977 a Corsier-sur-Vevey in Svizzera il grande Charlie Chaplin se ne andò, all’età di 88 anni. Pur avendo ricevuto due Oscar alla carriera (nel 1929 e nel 1972) e uno nel 1973 per la migliore colonna sonora con Luci della ribalta (USA, 1952), il rapporto tra il re del silent movie e la settima arte non fu sempre roseo. Con l’avvento del sonoro sincronizzato e quindi del parlato nel cinema – sancito de facto con l’uscita de Il cantante jazz (Alan Crosland, USA, 1927) – come reagì la star del cinema muto?

Nel Giappone degli anni ’30, dove il cinema muto ebbe così tanto successo che ancora oggi gli attori dell’epoca sono ricordati come dei veri e propri idoli, la nuova tecnologia non venne accettata subito. A opporsi con violenza furono i Benshi, gli imbonitori giapponesi, che oltre a commentare il film erano considerate delle vere e proprie star per il loro modo di dare la parola ai personaggi delle pellicole. Con il passare del tempo fu il pubblico, folgorato dal nuovo espediente cinematografico, che chiese a gran voce solo film sonori.

Anche in occidente i divi del cinema muto non la presero bene. L’interprete di Charlot rifiutò in maniera categorica l’idea del passaggio al cinema parlato: i film di Chaplin dal 1928 al 1936 erano film sonori, caratterizzati da un uso creativo di suoni e rumori, ma non concedevano spazio al dialogo; in questo senso un film come Luci della città (USA, 1931) è esemplare. Chaplin e i denigratori del sonoro come Rudolf Arnheim consideravano l’introduzione della voce nel cinema un regresso e un ritorno alla dimensione teatrale, ma anche un eccesso di mimesi della realtà che impediva al cinema di affermarsi come oggetto d’arte. 

Il 5 febbraio 1936 gli spettatori del Rivoli Theater di New York assistettero alla proiezione di Tempi moderni e sentirono per la prima volta la voce di Charlie Chaplin. Le parole provengono principalmente dalla radio o da altri dispositivi tecnologici, a pronunciarle non è quasi mai Charlot. In questo modo Chaplin si serve del sonoro ma nello stesso tempo lo critica, dimostrando come l’essenza del film, il fulcro, risieda in tutto ciò che sonoro non è: sono le immagini a parlare, senza aver bisogno del supporto del parlato.

Fu solo con Il grande dittatore (USA, 1940) che Chaplin si cimentò in scene comiche completamente dialogate. Il famoso discorso finale all’umanità fu il punto più alto della sua carriera: in un colpo solo Chaplin unì la propria capacità critica nei confronti della società alla consapevolezza che solo tramite le parole un messaggio così forte sarebbe potuto arrivare a tutti in egual modo. Chaplin dimostrò così di essere in grado di usare la nuova tecnologia e di saperlo fare nel migliore dei modi, dando l’ennesima prova della sua grandezza. 

Mattia Migliarino