Voto

8

Donne sole, abbandonate nell’assolata Tunisi dai mariti, figli, padri, nipoti, partiti nella speranza di una vita migliore e mai più tornati. Al centro della narrazione di Celles Qui Restent (di Kino Produzioni, disponibile in streaming su MioCinema) della regista siciliana Ester Sparatore c’è una di queste storie, quella di Om El Khir Ouirtani in attesa del ritorno del marito Nabil, accostata alle storie di altre mogli, madri e figlie, osservate nel dolore quotidiano, nei piccoli gesti di speranza, negli sguardi inconsapevoli, nelle intime confidenze, nei volti segnati dalla stanchezza e da una rabbia muta. Sono donne che lottano contro la paralisi di uno Stato che non le ascolta, sospese nell’atmosfera rarefatta di un’attesa senza fine. Sono le cosiddette “donne-fotografia”, monumenti viventi in memoria di quei mariti, figli, fratelli spariti durante la Primavera Araba e partiti per Lampedusa, per i quali chiedono giustizia e risposte. Una lotta, una protesta, la loro, mai accolta, che ancora oggi prosegue per le strade della città e arriva fin sotto al Ministero degli Interni e all’Ambasciata Italiana a Tunisi, istituzioni che reagiscono come muri di gomma di fronte al tentativo disperato di queste donne di mettere la parola fine al lento logorio che ha impietrito la loro vita.

Silenziosa testimone della loro esistenza, la macchina da presa di Sparatore non commenta, non abbellisce né strazia i contorni di queste donne, limitandosi a raccogliere gli sguardi e i silenzi protratti di bambini, madri e mogli che rifiutano scomode verità, mentre perseverano nella speranza e tentano di coinvolgere l’opinione pubblica, aggrappandosi dolorosamente alle foto del figlio o del marito disperso. Nel documentario di Sparatore, infatti, non c’è azione, ma solo il vissuto stanco e sfibrato delle protagoniste, descritte attraverso riti quotidiani assopiti da una staticità sospesa tra il ricordo di un passato mai risolto e l’attesa di una morte mai annunciata. Il film, giostrandosi tra ellissi e stacchi temporali, presenta così l’inesorabile scorrere del tempo, in contrasto con l’attesa beckettiana in cui queste donne sono sprofondate: la protagonista cambia e i bambini crescono, ma il tempo sembra avvolgersi su stesso alla ricerca di una risposta, di un blow up, di un volto, di una prova o una conferma che metta fine al dolore su cui queste donne sembrano ripiegarsi. Fuori campo, permane invadente e incombente la presenza di quella Lampedusa tanto spesso rievocata, mito di una terra promessa.

Tra contrasti interiori, amarezze, proteste e pubbliche manifestazioni, la ricerca di una verità e di una risoluzione si intreccia con i riti religiosi e quotidiani della vita della protagonista. Sfera pubblica e privata si alternano e si intersecano, apparendo indissolubilmente legate, mentre i rituali religiosi, l’Eid, la circoncisione, fanno da contrappunto alla trama, segnando lo scorrere dei giorni nell’assenza struggente di Nabil. Il documentario rimane imparziale e sospende il giudizio, così come ogni critica sociale, restituendo un ritratto nudo e silenzioso di una donna sola che lotta per la giustizia

Anna Chiari