You start losing the sense of the roots that provide the meaning and the strength for that tree. 
That is the space between that I call “bardo”.

Dopo 7 anni di inattività dall’ambizioso Revenant e con 5 premi Oscar alle spalle, Alejandro González Iñárritu torna con Bardo – La cronaca falsa di alcune verità. Presentato in concorso alla 79ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film verrà distribuito in un numero limitato di sale dal 15 novembre, per poi approdare dal 16 dicembre in streaming su Netflix – ma in versione ridotta, tagliata di 22 minuti.

Film-confessione in cui la rivelazione di Iñárritu avviene attraverso l’auto-accusa. Nessuna redenzione, solo la testimonianza di un uomo errante nel limbo del bardo tra vita e morte, liberazione e reincarnazione. Attraverso l’alter ego di Silverio Gama, giornalista messicano espatriato negli Stati Uniti, il regista rappresenta così l’iter dell’antieroe, con la sua usuale ironia e il suo riconoscibile taglio provocatorio. Il protagonista rappresenta infatti la decostruzione dello stereotipo dell’intellettuale impegnato emigrato verso il privilegio statunitense, irriducibilmente scisso dal dualismo tra madre patria e nuova casa, origini povere e ambizioni, documentarismo oggettivo e presa di coscienza interiore e, infine, “quel processo di integrazione che passa attraverso la disintegrazione” – riprendendo le parole del regista. Iñárritu riesce tuttavia a elevarsi ponendosi come giudice di sé stesso di fronte alle contraddizioni che la vita gli impone. Non si tratta di prendere una posizione tra Messico e Stati Uniti, bensì di indagare la propria posizione di fronte a tale dicotomia, come padre, borghese e artista.

Il riconoscimento collettivo mette in discussione l’integrità e la conseguente accettazione personale, il premio che l’America gli propone per la sua creatività diviene una medesima condanna spirituale. L’auto-commiserazione che ne deriva – per un consenso comunque ricercato e finalmente raggiunto – inonda ogni relazione e ogni atto dell’esistenza di Silverio. Un flusso di coscienza che ricorda l’ di Fellini o Lo specchio di Tarkovskij, ma che se ne differenzia grazie a un tono spiccatamente più politico, riflette sulla possibilità del collettivismo all’interno dell’individualismo. Ma la condizione di Iñárritu non pecca di narcisismo né di autoreferenzialità: è la medesima di milioni di persone immigrate, scisse tra due realtà antitetiche ma profondamente legate tra loro, come esemplifica nel film l’ipotetica compravendita della Bassa California da parte di Amazon. La stratificazione delle possibilità di lettura che offre Bardo, infatti, rende il film ben più complesso della semplice espressione soggettivista di un autore come Alejandro Iñárritu.

Virtuosista tanto nell’aspetto onirico quanto in quello realistico, il regista materializza il proprio dubbio e i propri traumi in sequenze apparentemente casuali e atemporali, legate da un nomadismo e una coerenza interna affascinante. I continui richiami accuratamente disseminati durante lo scorrere del film lasciano al pubblico il dono dell’ambiguità e dell’incertezza, mentre l’utilizzo del meta-cinema esalta le potenzialità e le debolezze del medium stesso come sinonimo di successo, portatore di fallimento e senso di colpa. In rimando al titolo, le verità – comunque relative, mai assolute, granitiche, dogmatiche – si celano nella falsità stessa della cronaca: l’enunciazione relativizza l’enunciato, il linguaggio cinematografico del regista messicano consente e legittima l’edificazione (e la demolizione) di un discorso intimo quanto universale.

Federica Furia