A 75 anni dalla sua prima uscita (New York, 15 ottobre 1940), l’11 gennaio è tornato nelle sale italiane quello che è da molti considerato il miglior film di Charlie Chaplin: Il grande dittatore.

Con un periodo di gestazione piuttosto lungo per l’epoca (la produzione iniziò nel 1938), questo dramma satirico portò sul grande schermo una controversa per l’epoca condanna ai regimi totalitari europei di Hitler e Mussolini. Scritto, diretto, prodotto e interpretato da Chaplin stesso, Il grande dittatore fu un successo di pubblico e di critica, tanto da essere nominato a ben cinque Oscar, tra cui Miglior attore protagonista e Miglior sceneggiatura originale.

Se oggi il ritmo di questa pellicola potrebbe risultare non così incalzante, come invece sembrò a chi lo vide allora, e se proprio non sapete trovare un motivo valido per spendere due ore della vostra vita con una caricatura di Hitler e di un barbiere ebreo, eccovi cinque validi motivi per mettervi comodi e gustarvi questa pietra miliare della storia del cinema.


1. Chaplin intuì le intenzioni di Hitler ancora prima dell’America.

Chaplin ideò e girò Il grande dittatore in un periodo in cui il governo americano e soprattutto l’opinione pubblica statunitense ritenevano il confronto non per forza bellico col regime di Hitler uno dei tanti impegni diplomatici a cui far fronte, di certo non una priorità o una minaccia così vicina. Per quanto Chaplin nel suo film non faccia mai riferimento a soluzioni che prevedano un’entrata in guerra contro i regimi europei, il suo ritratto di Adenoid Hynkel, dittatore dello stato di Tomania, fu strumentalizzato dai contemporanei e letto come una delle prime dichiarazioni contro Hitler. Nel film viene anche profetizzata la persecuzione degli Ebrei, e proprio la scena in cui i soldati terrorizzano il Ghetto fu ritenuta dalla critica di allora troppo fuori dalla realtà, impossibile  agli occhi di un pubblico liberale americano abituato alla sacralità della proprietà privata. Al contrario, la stessa scena vista oggi risulta drammaticamente verosimile e, anzi, forse fin troppo “all’acqua di rose”. Nonostante la grandissima carica profetica della pellicola, nella sua autobiografia del 1964 Chaplin ammise che, se fosse stato al corrente dei crimini che Hitler stava compiendo in Europa in quegli anni, non avrebbe mai girato Il grande dittatore.

 

2. Il grammelot di Hynkel.

Il grande dittatore uscì 12 anni dopo l’introduzione del sonoro. Nonostante fosse dunque passato un significativo lasso di tempo, fu questa la prima pellicola di Chaplin in cui comparsero dei dialoghi articolati e funzionali alla narrazione, la prima in cui, di fatto, si sentì Charlot parlare. In particolare, l’interpretazione di Hynkel vede il dittatore avvalersi di una divertentissima lingua nonsense inventata, dotata di sonorità germaniche pur non trattandosi dell’idioma tedesco. Insomma, è con Chaplin che lo stile comico-linguistico del grammelot (che valse a Dario Fo il Nobel nel 1997) inizia a farsi largo tra il grande pubblico della modernità. L’espediente, tuttavia, non era nuovo a Chaplin: per quanto Tempi moderni (1936) rimase un film muto senza mai un dialogo vero e proprio, celebre è l’interpretazione della canzone Je cherche après Titine (conosciuta anche come Io cerco la Titina o Nonsense Song) da parte di Chaplin, che si servì di un testo improvvisato in un grammelot questa volta composto impastando parole francesi, spagnole e italiane, storpiate e senza alcun criterio logico-grammaticale.

 

3. Il rapporto Hitler-Chaplin-Sonoro.

Hitler e Chaplin risultano stranamente avere vite tra loro parallele sotto certi aspetti: tutti e due ebbero una relazione particolarissima con il sonoro. Chaplin raggiunse la notorietà come una star del film muto, e Charlot è universalmente riconosciuto come l’emblema del cinema senza suoni. Al contrario, Hitler è conosciuto per i suoi discorsi, gli stessi in cui, se privato del sonoro e ovviamente estrapolato dal contesto storico, appare ridicolo e goffo, dotato di una platealità esagerata che non può non indurre alla risata. Tuttavia, quando il popolo tedesco poté finalmente vedere e ascoltare Hitler, la sua presenza sullo schermo esplose in una carica terribilmente comunicativa, di una portata mai vista all’epoca.
Il grande dittatore gioca proprio su questa idea: la voce di Hynkel, propagata per le vie del ghetto, è terrificante, nonostante il suo grammelot sia privo di un qualsivoglia significato, e quando appare davanti alla macchina da presa – impersonificato da un Chaplin gesticolante e goffo – l’effetto qui si tramuta in comico, al contrario di quanto accade col vero Hitler. Il film, ridicolizzando la figura del tiranno tedesco, riesce allo stesso tempo a far riflettere lo spettatore proprio su ciò che la rende così terrificante.

 

4. Benzino Napaloni.

Una delle tante scene memorabili del film è la visita di stato da parte di Benzino Napoloni, dittatore della vicina nazione di Bacteria (Batalia nella versione italiana). Interpretato da un oggi sconosciuto Jack Oakie nominato agli Oscar come Miglior attore non protagonista , Napoloni è un clown parolone e confusionario (facile capire dunque a chi Chaplin si riferisse), la cui goliardia e il fare arrogante fa a pugni col rigore e la formalità di Hynkel. Per tutta la durata della visita, l’unico obbiettivo di Hynkel è quello di far capire a Napoloni chi tra i due comandi. Ed è da questo presupposto che si articolano alcune delle scene più comiche della pellicola: il tentativo di far sedere Napoloni su una sedia palesemente troppo bassa, cosicché Hynkel possa trovarsi più in alto di lui; l’animata negoziazione durante il banchetto, in cui Hynkel dice di voler spezzare il nemico come tenta di fare con un pugno di spaghetti (senza riuscirci); e, infine, la famosa scena del barbiere, dove ognuno dei due dittatori cerca di alzare la propria sedie più in alto di quella dell’avversario.


5. Scena finale.

A parlare non sono più Charlot o Hynkel. Chaplin si toglie la maschera del barbiere ebreo e del dittatore tiranno, guarda dritto in camera e mette in scena un monologo di quattro minuti rivolto all’umanità, in cui un uomo comune denuncia la tragicità del progresso e, citando il Vangelo di Luca, fa riferimento agli ideali universali di tolleranza e di rispetto tra gli uomini, denunciando il degrado morale ed esistenziale in cui il modo è scivolato. Ironia della sorte, il discorso finale di Chaplin ne Il grande dittatore, nonostante i toni marcatamente pacifisti, fu usato da molti suoi contemporanei come pretesto per alimentare le tesi a favore dell’entrata in guerra degli U.S.A.

Andrea Mauri